Di Pietro Pompei

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Sono passati pochi giorni dalla festa in onore del nostro Santo Patrono, San Benedetto Martire, nonché Eponimo della nostra Città, (13 ottobre), ci piace rispolverare alcuni scritti della nostra storia per dar seguito alle  richieste dei tanti amici che temono vadano dimenticate  le nostre radici per l’innesto dei tanti venuti da “fuori” ed anche per fare giustizia del precedente nostro secolo che vide un grande fervore di ricerca storica della nostra Città.

Memorie di gruppi della domenica armati di picconi e pale alla ricerca di reperti sul territorio e di continui scritti e conferenze, sono ancora presenti in molti di noi. Nominare tutti quelli che ci hanno lasciato documenti della nostra “Sammenedette, care, bille mmine”, si potrebbe incorrere in alcune spiacevoli dimenticanze. A tutti va il nostro grato ricordo.

Diversamente dai tanti paesi vicini, la storia della nostra città, dalle origini fino al tardo Medioevo, è relativamente povera. Ciò lo si può dedurre dai pochi reperti ed opere murarie che sono rimaste. Molte sono le motivazioni che si possono portare a spiegazione di tale asserzione: prima fra tutte il fatto che i nostri antenati si trovarono ad abitare in una zona quasi naturalmente di confine, per cui sistematicamente soggetta a continui eventi militari. Per decenni e decenni,  questa località venne considerata un avamposto su una demarcazione tra due gruppi etnici: a Sud i Liburni e a Nord i Piceni. Quando poi la Salaria venne a congiungersi con l’Aprutina, furono più frequenti le migrazioni militari: gli eserciti stanziavano lungo le valli scavate dai torrenti, prima di avventurarsi oltre il Tronto, fiume, un tempo, particolarmente ricco di acque.

Un primo stabile insediamento si ebbe intorno alla tomba di un Martire  cristiano, Benedetto, del martiro del quale è giunta fino a noi una particolareggiata tradizione. La devozione verso questo Santo fu sicuramente incisiva tanto da lasciarci oltre ad una Pieve, intorno alla quale sorse il primo nucleo abitativo anche il nome, unico Eponimo del genere tra i tanti paesi litoranei. E’ il momento questo in cui  è predominante l’ “ager cuprense” e da qui, secondo la tradizione, con aggiunte nel florileggio fatti miracolosi, giunse sulla nostra spiaggia, in contrada Marinuccia, spinti dalle correnti, il corpo e il capo, gettati,  per disprezzo, nel torrente Menocchia e finiti in mare aperto.

Una prima testimonianza cartacea dell’esistenza della nostra località si ha in un documento fermano dell’anno 998. Ma bisogna giungere al 1145 per avere un sicuro attestato in cui i fratelli Atto e Berardo Gualtieri ottennero da vescovo di Fermo, Liberto, il permesso, come atto di vassallaggio, di costruire il Castello di S.Benedetto in Albula. Al di là delle mura di protezione, il Castello, nell’interno, non si arricchì di particolari manufatti, a dimostrazione di una popolazione povera, dedita all’attività agricola su un territorio non adatto per le grandi colture, limitato ad ovest da una densa vegetazione mediterranea e intorno da zone acquitrinose. Il  torrione, che impropriamente viene legato al nome dei Gualtieri, fu costruito  alcuni secoli dopo ( intorno al 1300) nella necessità di premunirsi contro attacchi di nuovi strumenti di assalto.

Era trascorso appena un secolo che i vari eredi dei Gualtieri, pensarono di vendere la loro parte di eredità. La città di Fermo  le acquistò per farne un avamposto in difesa di un territorio concesso loro dai vari Imperatori, in particolare di Casa Svevia. Federico II di Svevia, nella sua discesa verso la Sicilia si accampò per lungo tempo sul Monte Cretaccio.

E’ tra il secolo XIII e XIV che incominciarono a delinearsi le premesse di una storia, che caratterizzerà in futuro la nostra città. All’attività di un’agricoltura sempre più specifica che riverserà i suoi prodotti anche sul mercato di città lontane, come Roma e ad uno sfruttamento della foresta Folcaria, (Venezia veniva a caricare un legname particolare per le sue barche) si unì il  lavoro sul mare, favorito dal formarsi dei primi consistenti “relitti”. Questi poi facilitarono anche le comunicazioni, aprendosi su di essi una strada litoranea, agevole per il transito non solo degli eserciti, ma soprattutto per il trasporto delle merci.

Il nostro fu anche il territorio  su cui sfogarono le rivalità i potentati di Ascoli e Fermo, a cui vanno aggiunte le scorrerie dei Saraceni. Questo continuo andirivieni portò malattie, come la peste, che decimò la popolazione, come quella dell’anno 1492, in cui si decise di abbandonare il Castello per ricostruirlo sul pianoro del Monte Aquilino,  sul quale in passato vi era stato un insediamento Longobardo. Già avevano ottenuto il permesso dal papa Innocenzo VIII nel 1492.

La storia del nostro Castello, dal Medioevo in poi , si intreccia con quella dei grandi potentati e specialmente nella rivalità tra il potere della Chiesa e quella dell’Impero con annessa la partigianeria delle due città, sopra ricordate, Fermo ed Ascoli. Episodio importante fu quello della distruzione del “porto” costruito dagli Ascolani alla foce sinistra del Tronto, da parte dei Fermani, guidati da Gentile da Mogliano, in quel tempo Signore di Fermo (1348). Di tutte le torri che formavano la fortificazione del porto, ne rimase solo una che ancor oggi regge al tempo e comunemente chiamata “Torre Guelfa”.

Dato l’aumento sempre crescente della popolazione si pensò di costruire case fuori le mura castellane. In un trasunto di rogito notarile rogato dal notaio Giuseppe Antonio Anelli in data 7 gennaio 1741, si legge che “la stessa Communità ab immemorabili tempore ha ceduto e consegnato e venduto a diversi Particolari di questo Castello il posto o sia Sito per fabricarvi case ed abitazioni per commodo proprio in diversi luoghi, e precisamente in contrada detta delle Casenove annesse e contigue al Castello, come pure nelli Relitti del Mare ora detti della Terra della Marina”.

Gli eventi della Rivoluzione Francese furono vissuti nella paura di un’aggressione principalmente religiosa, con un popolo non preparato a comprendere le nuove idee da essa sprigionate. Il territorio fu  diviso in otto Dipartimenti. S.Benedetto fu inserito in quello del Tronto con capoluogo Fermo. Questo, a sua volta, fu ridiviso in 19 Cantoni. E’ il periodo in cui emerge la famiglia Moretti,  con il suo rappresentante presso il Cantone.

Scrive il Guidotti nella sua storia della nostra città (pubblicata dal Circolo dei Sambenedettesi):”Incominciò così il sec. XIX, il secolo del Risorgimento, in cui tante glorie civili e militari innalzarono la nostra Patria a dignità di nazione libera ed indipendente, la cui alba, però, trovò il nostro paese in uno stato compassionevole di depressione economica, culturale e civile”.

(Qui possiamo inserire il  “Voto”  che i nostri padri fecero nel 1855 in seguito all’imperversare della peste che mieteva vittime.  Il voto voleva essere anche un atto di riparazione per non aver degnamente onorato l’anno prima, con particolare festeggiamenti, la proclamazione del dogma dell’Immacolata da parte del papa Pio IX. Dogma che nel 1856, come aggiunta al ringraziamento, veniva ricordato con un’epigrafe posta sull’Arco dei Fiorani  lungo via dei Vittorini (oggi Fileni).  L’Arco con l’epigrafe andò distrutto il 18 giugno 1944 ad opera dei tedeschi).

Ma ben presto la nostra città si risvegliò dal suo torpore tanto che la popolazione nel volgere di cinquant’anni raddoppiò, passando dalle 5839 unità del 1861 alle 10.428 del 1911 e triplicò nel 1961 (31.274), nonostante le due grandi guerre mondiali.  L’attività peschereccia divenne la prima d’Italia, come attivissimo era il commercio orto-frutticolo. Non va, infine, dimenticato che la nostra città, nel dopo guerra, si è trasformata in un vivace centro turistico, in costante crescita demografica.

Guido Piovene, famoso scrittore e giornalista, così scrisse di noi sulla rivista “Tuttitalia”,n. 93 del 14 novembre 1962:” S.Benedetto del Tronto è la città più eccentrica delle Marche per l’indole  dei suoi abitanti, fantastici e arrischiati, pescatori che corrono con tecniche di pesca poco note in Italia, dai mari artici all’Estremo Oriente, un ‘oasi di sangue diverso dalla popolazione agricola insediata alle loro spalle”.

Qui mi fermo, lasciando la storia del secolo XX e inizio del XXI alle tante pubblicazioni, frutto copioso, di un fervore di ricerca e di amore per la nostra città.

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