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Il ricordo di Federica Graci nelle parole del marito Marco e dell’amico Massimo

 

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – A una settimana dalla nascita al cielo di Federica Graci, avvenuta lo scorso 28 settembre, vogliamo ricordarla ancora una volta attraverso le parole di suo marito Marco Sermarini e di un amico di famiglia, Massimo Giacinto. Le parole di Marco sono state pronunciate durante il rito funebre col quale Federica è stata accompagnata nell’abbraccio di Dio, mentre le parole di Massimo sono un ricordo grato e commosso per l’incontro con una donna così singolare. 

Marco Sermarini: «Prima di tutto voglio ringraziare tutti per una serie di motivi, la vostra presenza qui che ci porta molto. Parlo a nome del clan Sermarini, ci conforta molto, ci fa molto piacere. Dovrei fare un elenco enorme di persone dei cinque continenti che hanno pregato per noi in questo periodo, e le preghiere hanno avuto il loro frutto, senza dubbio. 

Dovrei fare un elenco lunghissimo di persone che in questi sei mesi di malattia e di difficoltà, che potete comprendere sicuramente, che ci hanno aiutato in tanti modi. Non faccio niente di tutto questo, però dico grazie. Perché il nostro Chesterton diceva che la riconoscenza è alla base della felicità, un uomo felice è sempre un uomo grato, solo un uomo grato può essere felice. 

E noi siamo molto grati per Federica, per cui diciamo grazie. Diciamo grazie al Signore per avercela data, per averla fatta stare con noi per questi anni e questo è già molto, non possiamo che dire grazie. Anche perché mia moglie ci ha lasciato una grande consegna.

Tra ieri e oggi ho sentito molte persone che hanno voluto manifestare la partecipazione al nostro dolore e tati mi hanno parlato di mia moglie come una persona brava ad accogliere, ed io questo pensavo di saperlo, però forse adesso l’ho capito bene. Molti mi hanno detto che mia moglie era una persona capace di stupirsi e questo lo sapevo.

Ricordo una battuta di un nostro amico, libanese e simpaticissimo. Siccome mia moglie faceva sempre tante domande, le faceva così, come le venivano, ed ad un certo questo questo amico le disse: “Ma Federica, tu sembri una bambina!”, e questo suo essere così è rimasto sempre, fino all’ultimo secondo. E di questo io sono molto grato.

E poi l’innegabile talento educativo di Federica, che non si spiegava solo a scuola, anche perché lei non insegnava nella nostra scuola, però era una presenza costante e ti girava intorno fintanto che non mollavi. E quindi questo talento non si esplicava solo in famiglia, donna esigente, generale di corpo d’armata da questo punto di vista, ma si esplicava dovunque lei si trovasse.

Uso il passato ma posso usare tranquillamente il presente, e questo è un altro dono che abbiamo coltivano nei nostri 27 anni e 12 giorni di matrimonio, che è il dono della Fede Cattolica. 

La Fede Cattolica ci dice che bisogna credere alla Comunione dei Santi, per cui qui c’è l’Ecclesia Militans cioè la chiesa che combatte, e di là c’è l’Ecclesia Triumphans. Siamo lo stesso eserciti ma per ora siamo in due reparti diversi, però non cambia assolutamente nulla. 

A proposito di guerre e di battaglie, riguardo alla lettura che abbiamo letto poco fa, è tratta dall’epistola che ci racconta di una battaglia, anzi proprio di una guerra. Una guerra che è una visione, ma che è una guerra che c’è stata, che c’è veramente e che c’è ogni giorno. E’ la guerra tra il bene e il male, tra Dio e il male e questa guerra è combattuta davanti a tutti da San Michele, capo delle milizie angeliche.

Quando ho visto che il funerale si sarebbe svolto oggi son ostato contento di  questa ricorrenza, perché quella che Federica ha condotto è stata una battaglia, l’ultima che abbiamo fatto, ma una guerra che abbiamo cominciato da sempre, e in questa battaglia il grande drago voleva prevalere su di lei, ma non ce l’ha fatta.

«Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli». (Apocalisse 12,9)

E si è compiuta quella che noi avevamo capito dall’inizio che doveva essere una battaglia e avevamo intuito dall’inizio che forse dovevamo dare una testimonianza, e qui c’è scritto, ma io non lo sapevo sei mesi fa. Non sapevo come sarebbe andata a finire e non sapevo che sarebbe andata a finire oggi.

«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio – perché noi siamo qui a combattere per il nostro Re, che è Dio – e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, – cioè colui che ci dice “tu non vali niente, la tua vita non serve a niente, la tua vita è un non senso, la tua vita è un nulla, tutto finisce in un buco nero” –  colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi – cioè noi, Federica – lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello – dove Federica ha lavato i suoi panni per sei mesi – e grazie alla testimonianza del loro martirio».

Cioè noi poveri piccoli soldatini paurosi, cioè quando ti dicono “tua moglie ha un tumore, e non un brufoletto, cioè uno dei peggiori, non è che ti viene da fare i salti di gioia, però poi sovviene il coraggio e il coraggio ti da la forza di dare la testimonianza, cioè di fare come gli antichi cristiani, dove la prima cosa di cui davano testimonianza era la resurrezione di Cristo, e noi diamo testimonianza del fatto che la vita non finisce qui, Cristo è risorto e ha dato la sua vita per noi e ha sconfitto la morte. Non avevamo capito che dovevamo dare questa testimonianza però ci abbiamo provato strada facendo.

Il nostro Frassati ci ricordava, e ieri mi è tornato in mente, che noi siamo fatti non per questa terra ma per la nostra Vera Patria. Quindi la battaglia è stata vinta. Qualcuno dirà “Ma come? Federica non c’è più”, la battaglia è stata vinta. Federica ha voluto morire a casa, me lo ha sempre detto. E’ morta con noi, con la nostra famiglia e con i nostri amici intorno e con il conforto del sacerdote, che non è mai mancato in questi mesi. 

E poi non è morta disperata, è morta serena, combattendo fino all’ultimo perché anche la morte è una battaglia da fare, e devo dire che lei è stata coraggiosissima, non si è mai sottratta. Ho cercato di darle forza come potevo, anzi abbiamo cercato perché i nostri figli non si sono tirati mai indietro, non hanno mai avuto paura di affrontare questa cosa, o meglio l’hanno affrontata con coraggio, perché il coraggio segue alla paura.

E in questi mesi quello che ci ha accompagnato sono alcuni versi di un poema del nostro Chesterton, che si intitola “La Ballata del Cavallo Bianco”. E’ la storia di Re Alfredo che deve combattere contro i vichinghi, e i vichinghi erano crudeli pagani e lui doveva difendere il suo popolo ed ad un certo punto ha un dialogo, una sorta di visione, con la Madonna che gli dice: 

“Ma tu e tutta la stirpe di Cristo siete ignoranti e coraggiosi, e avete guerre che a stento vincete e anime che a stento salvate. Non dico nulla per il tuo conforto, e neppure per il tuo desiderio, dico solo: il cielo si fa già più scuro ed il mare si fa sempre più grosso. La notte sarà tre volte più buia su di te e il cielo diventerà un manto d’acciaio. Sai provar gioia senza un motivo, dimmi, hai fede senza una speranza?”. Umanamente non avevamo grandi speranze, abbiamo conservato la Fede, che era la vera battaglia da vincere. 

Posso darvi solo questa testimonianza, potrei parlare quattro giorni consecutivi di quanto mia moglie sia stata grande nella vita, di quanto sia stata semplice, umile, buona, una buona mamma, una buona moglie, piena di forza, indomita, mai piegata, mai seduta, mai accontentata, ma questa è un’altra storia e un po’ lunga però molti di voi mi hanno portato questa testimonianza e io sono tranquillo e sereno.

Invito anche voi ad essere altrettanto tranquilli e sereni, altrettanto lieti e vorrei anche dire allegri, e lo posso dire. Perché comunque questo fa parte del nostro essere Cristiani, abbiamo questa speranza, questa è la vera speranza, ecco alla fine è questo che conta amici miei. Quindi state allegri e pregate per l’anima di mia moglie, perché qualcosa mancherà sempre, pregate per noi che siamo e la battaglia la continuiamo, e non vogliamo minimamente tirarci indietro.

E con questo dico grazie anche ai sacerdoti che sono venuti, ai monaci, a tutti i cari amici e andiamo avanti, con coraggio». 

Massimo Giacinto: «Erano gli ultimi anni ’70 quando ancora continuavo a frequentare la curiosa enclave dei frati di Sant’Antonio. Qui tra scuola per ragionieri, parrocchia e coro avevo rischiato fin dalla metà degli anni ’60 di diventare un bravo ragazzo, probo e onesto. In realtà cercavo di accalappiare le grazie della mia futura moglie che avevo conosciuta in quei banchi  e che, contemporaneamente, scalpitava in catechismo e, neanche a dirlo, faceva il soprano in chiesa. 

Devo dire che la cosa andò a buon fine perché mi ritrovavo sposato e con una bella bambina. Poi, sempre dai frati, cosa del tutto inimmaginata, avevo anche incontrato il Movimento di Comunione e Liberazione. Da qualche tempo era uscito in campo nazionale un settimanale di ispirazione cattolica, “Il Sabato”, che affrontava diversi aspetti della vita sociale, culturale, religiosa e politica della società.  Una bella sera, facendo le prove del coro, mi ritrovai in compagnia di due apprendisti tenori, tali Nicolino – che conoscevo come fratello di Zarè (amico del Movimento) – e Marco. 

Quest’ultimo lo avevo presente a messa sotto le vesti di uno scout posizionato davanti, a destra della navata della chiesa dei frati. Stesso abbigliamento in pantaloncini corti e cravatta rossoblu era presente Giorgio, che poi, felicemente, sarebbe diventato don. Iniziò un bel rapporto, mezzo tono più, mezzo tono meno, con quei due ragazzotti che, non poche volte, avevano sottobraccio “Il Sabato”. Nel tempo, ironizzando, avrei detto loro che la mia testimonianza era stata a quel tempo così scarsa che avevano pensato bene di trattenere il valore di certe riflessioni e di prendere delle strade diverse dalla mia. E lo Spirito Santo, come sempre, agì per il meglio e Nicolino fondò i Fides Vita e Marco la Compagnia dei Tipi loschi. Bella storia, belle storie. 

Passano gli anni e Marco da grande amico, grazie a una mia monumentale cavolata, diventa anche uno dei miei avvocati. Notti insonni le mie, notti insonni – avrei saputo – le sue, alla ricerca di come affrontare una vicenda delicata e dalle mille implicazioni. Non credo che la preghiera sia mai mancata in quelle sue notti e non penso che Federica ne sia stata assente. Il rapporto con l’ex scout si stringe, la Compagnia dei Tipi Loschi si allarga. 

Poi mi arriva, quasi in punta di piedi, mesi fa, la notizia di Federica: sta male, anzi malissimo. Chiamo gli amici a pregare per lei ed i suoi. Peggiora. E poi Paolo manda un whatsapp: “Cari amici pochi istanti fa Federica è tornata alla casa del Padre”. Incredibilmente la scambio per qualche minuto con una omonima tanto la cosa non era corrispondente ai miei programmi. Poi arriva mia moglie. Non si dà pace e mi coglie mentre prego in silenzio. Il pensiero mi va, prima che a Marco, al figlio Piergiorgio. È un ragazzo che stimo da molti anni. Mi informo sul funerale: domani, ore 15,30, sempre in quella chiesa dei frati. Arrivo sul sagrato ormai pieno di gente mentre un coro accoglie la salma a piena voce. Mi fermo lì, all’aperto, nel settore a sud della porta. Non riesco molto a concentrarmi e alzo lo sguardo verso l’edificio a sinistra del vecchio istituto per ragionieri.

Ci sono delle persone che sono affacciate ad una terrazza e, mentre quel canto glorioso si fa avanti impetuoso, un lampo mi scorre nella mente. Nel 1981, sempre su quel sagrato, avevo presieduto al servizio d’ordine per i funerali di Roberto Peci. Ho ancora negli orecchi gli urli di dolore dei familiari quando, da dentro la chiesa blindata accolsero la salma che entrava. Chiudemmo il portone immediatamente dopo, lasciando che il dolore dei suoi abbracciasse quel povero ragazzo prima che la cosa divenisse spettacolo. Poi facemmo entrare un popolo immenso, immenso come quello per Federica e, sul balcone davanti, a sinistra, degli spettatori, allora come ora. 

L’accostamento era impietoso: disperazione allora, serenità ora. Una ingiustizia violenta allora, una malattia violenta ora. Cosa metteva ordine in questi fatti? La sola cosa possibile era quella che avevo detto a Marco, quasi istintivamente, la mattina del funerale, a casa: “Siamo assolti”. Siamo assolti perché la Misericordia di un Altro, espressa esperienzialmente nella nostra storia, dà pace ai nostri cuori afflitti da tanti progetti interrotti misteriosamente. Posso anche scatolare gli eventi con tanti titoli da prima pagina, Roberto ne fu protagonista, Federica lo stesso. Rimangono le eterne domande affidate alla storia e, per chi crede, a Dio: perché, perché ora, perché così?! Per quel che mi riguarda, per la storia di Marco, per la mia storia, solamente nell’esperienza vissuta nella fede con una compagnia di veri amici, veri non per pacche sulle spalle, ma tesi alla Verità del perché del Sacrificio di Cristo, posso cogliere quel barlume di pace e di Misericordia che mi permette di dire: assolto!».