DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Gesù, trovandosi di fronte ad una grande folla, ne ebbe compassione, perché, leggiamo nel vangelo, «erano come pecore che non hanno pastore». E come sono le pecore che non hanno un pastore? Smarrite, impaurite, spaesate, affamate, assetate, probabilmente vaganti ognuna per proprio conto, esposte ai pericoli, alle intemperie, sole nella malattia, nelle difficoltà.

Gesù ne ebbe compassione…non è semplice pietismo, non è un atteggiamento di facciata; è, invece, la commozione di chi vuole compromettersi con il dolore, con la fame dell’altro, la commozione di chi si lascia interpellare dal bisogno dell’altro perché mosso da una passione viscerale, la tenerezza di chi è attento al gemito di quanti invocano vie d’uscita alle fami che minacciano la loro quotidiana esistenza.

Gesù ne ebbe compassione…e subito potremmo pensare che il concretizzarsi di questa compassione sia l’esaudimento di ogni desiderio! Miracoli, guarigioni, resurrezioni…no! Gesù non guarisce nessuno, non compie miracoli; leggiamo, infatti, nel Vangelo: «si mise ad insegnare loro molte cose». Gesù parla, dona alla folla la Sua Parola, una Parola capace di illuminare, dare luce a quello che facciamo, viviamo, soffriamo, una Parola che sa riempire, dare senso, orientare.

Non una Parola di pietà, buonista, ma la parola che è quel “fatto concreto” su cui poggiare e leggere tutta la nostra esistenza, nelle sue gioie e nei suoi dolori.

Una Parola, come canta il Salmista, che dà riposo, che rinfranca l’anima, guida per il giusto cammino, che è bastone e appoggio, una Parola che sfama, accompagna, che non ci fa mancare di nulla, che ci permette di attraversare la vita e ogni esperienza di vita consapevoli della compagnia del Signore.

Quella stessa Parola attorno alla quale, poco prima, Gesù aveva riunito anche gli apostoli di ritorno dalla missione; apostoli che vogliono riferire al loro Signore «tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato». Perché è la Parola che ci fa comunità, che ci fa gregge riunito attorno al Pastore, perché è questa intimità vera con Gesù e la sua Parola che ci fa essere persone amate e non più folla assetata, affamata, smarrita, dispersa.

Gli apostoli, quindi, sono appena tornati, il Signore li invita in disparte, in un luogo deserto, per riposare e raccontare ma la folle si precipitano loro incontro. Non è possibile avere un minuto di tranquillità, meglio allora attraversare il lago, ritirarsi lontano…fatica sprecata! La gente è già pronta ad attenderli, prima ancora che sbarchino sull’altra riva.

I discepoli aspirano senza dubbio al riposo contemplativo che avrebbero trovato presso il Maestro (noi, oggi, lo chiameremmo giorno di deserto, ritiro spirituale, esercizi spirituali…): certo, Lui solo può dare un senso alla loro vita, un contenuto alle loro parole, una dimensione nuova ai loro gesti quotidiani. Ma, non respingendo le folle che li circondano, Gesù insegna agli apostoli cosa davvero devono cercare presso di Lui: non un confortevole rifugio per anime devote in cerca di sensazioni particolari, ma la partecipazione all’amore di Dio per il suo popolo, nella consapevolezza che la missione non è altro che il dilagare della carità di Cristo verso le folle, verso il gregge abbandonato a sé stesso.

Allora niente vacanze per gli apostoli, per i cristiani? Potremmo dire…niente vacanze per l’amore. L’intimità con Cristo deve portarci, infatti, a condividere proprio la sua sollecitudine, la sua compassione per ogni pecora del suo gregge, per ogni uomo.

Allora buon cammino e buona strada a tutti in compagnia della Parola che ogni giorno il Signore, per sua grazia, non manca mai di donarci!

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