DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Gesù chiama a sé i discepoli: non è una sorta di riunione organizzativa per programmare l’attività missionaria. Gesù non vuole fare il punto della situazione né tantomeno istruire i discepoli su strategie da mettere in atto per fare più proseliti.
Gesù, leggiamo nel vangelo, «chiamò a sé i Dodici»: Gesù sa che il punto di partenza non sono gli obiettivi da concordare, le tecniche da applicare, le risorse su cui contare, gli strumenti da utilizzare.
Il punto di partenza è Gesù, e solo Lui.
I Dodici, e tutti quanti noi, siamo stati chiamati, prima di tutto, a stare con Lui. È lo stare con Lui che legittima ogni testimonianza e ogni missione, è la relazione con il Signore che genera ogni altro tipo di relazione. La testimonianza che ci è chiesta come cristiani nasce proprio dall’intreccio di tutte le nostre relazioni con la Sua.
Una volta chiamati a sé i Dodici, «prese a mandarli». “Mandare” dice un uscire da sé per andare altrove, in posti nuovi, sempre in viaggio, per svolgere un compito non per sé stessi ma per Gesù, a nome Suo.
Sicuramente i discepoli non sono ancora pronti, gli interrogativi su quel Gesù che stanno seguendo sono ancora aperti. Ma il Signore li manda ugualmente, li manda così come sono, non prova a cambiarli ma li immerge nell’esperienza perché imparino dalla vita, dall’incontro con le persone e con i bisogni della gente.
E li invia a due a due. Gesù considera un valore maggiore la testimonianza dell’essere in comunione che non la bravura del raccontare. Li invia a due a due, cioè, non in vista di un migliore risultato o di una maggiore efficienza, ma perché non si può prescindere dalla comunione, dalla reciprocità, dal confronto, dall’autenticità di quanto sperimentiamo e viviamo.
E Gesù li invia liberi da tutto, senza pane, senza sacca, senza denaro, per una povertà che è insieme fede e leggerezza.
Leggerezza perché un discepolo appesantito dai bagagli diventa sedentario, conservatore, incapace di cogliere la novità di Dio.
Fede perché questa povertà è il segno di chi non confida in sé stesso, di chi non vuole essere al sicuro da tutto ma si fida di Dio.
Perciò il discepolo parte per la missione molto vulnerabile e dipendente dall’accoglienza che incontrerà. Anche il rifiuto è previsto: la parola di Dio è efficace ma non toglie all’uomo la libertà. Può essere accolta e può essere rifiutata; il discepolo deve proclamare il messaggio ma lasciare a Dio il “risultato”.
E, in concreto, cosa siamo chiamati ad annunciare? Come canta il salmista, la pace, la salvezza, la misericordia, l’amore, la verità, la giustizia. Tutto questo non perché siamo a servizio di Dio, ma perché, come scrive San Paolo nella lettera agli Efesini, siamo figli, protagonisti del progetto di amore, di grazia, di benevolenza, di santità di Dio per ciascun uomo; «…siamo stati fatti eredi, predestinati a essere lode della sua gloria», a cantare, cioè, i prodigi che il Signore opera nella nostra vita e nella vita dei fratelli, a seguire i suoi passi che tracciano il cammino, a farci cammino sulla via dell’Amore.

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