DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

È la sera di Pasqua, i discepoli sono riuniti nel Cenacolo, radunati dalle parole di Maria di Magdala «Ho visto il Signore». Ma, pur avendo avuto dei segni, non riescono ancora a cogliere il senso di questo giorno nuovo. Le porte di quel luogo sono chiuse, tutti loro sono ancora rintanati dentro: hanno paura, sono chiusi nel terrore di essere arrestati dai capi del popolo, chiusi nello sconcerto per quanto è accaduto a Gesù, barricati dietro la colpa del loro essere fuggiti, dell’aver lasciato solo il Maestro nell’ora della prova. È proprio qui che viene Gesù, per stare «in mezzo», ci dice il Vangelo, per prendere dimora dentro la loro e la nostra storia, dentro la loro e nostra vita di fatica, di delusione, di paura. Gesù ci sta in mezzo, insieme a noi!
Non c’è Tommaso con loro. Non c’è e non vede il Signore.

Al suo rientro, trova i suoi compagni, ascolta il loro racconto ma questo non gli basta per credere che Gesù è vivo ed è stato in mezzo a loro. Perché? Forse perché, come capita spesso a ciascuno di noi, il loro volto, la loro espressione non è proprio quella di qualcuno che ha incontrato il Signore, il Maestro, Gesù e Gesù Risorto, quindi vivo. Barricati ancora dietro le porte chiuse, dietro le loro paure, forse non hanno l’espressione di chi ha ricevuto il soffio dello Spirito Santo, lo Spirito che spinge, rivoluziona, mette in cammino. Fuori dall’aria ammuffita, nella libertà, in pieno sole.
Tommaso non crede loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Tommaso vuole vedere i segni della passione, credere a partire da quei segni.
Desidera che, risorto, sia proprio quell’uomo con cui ha condiviso giorni, strade, cammino; con cui ha condiviso fatica, stanchezza, sofferenza così come gioia, amicizia, incontri; con cui ha condiviso successi e insuccessi; con cui ha spezzato il pane quotidiano nei pasti e sulla mensa della Parola; quel Gesù, cioè, che porta su di sé, come ogni uomo, i segni di quegli anni terreni che non sono un caso ma la volontà e il desiderio concreto di un Dio che, attraverso l’incarnazione di suo Figlio, ha fatto della vita dell’uomo, dell’uomo stesso, il suo tempio, la sua abitazione, la sua dimora, il suo riposo!
Quei segni, quelle ferite sono per Tommaso delle feritoie, delle fessure davanti alle quali fermarsi, fessure che gli permetterebbero di ritrovare ciò che arde dietro quella soglia, la storia, cioè, di amore assoluto, gratuito, totale e incondizionato di Dio per l’uomo.
«Mio Signore e mio Dio»: Tommaso, vedendo davanti a sé Gesù vivo, Gesù che mostra i segni della sua passione, ma soprattutto sentendosi intimamente interpellato e conosciuto dalla sua Parola, una Parola che gli chiede «metti qui il tuo dito…non essere incredulo ma credente», prorompe nella confessione di fede più bella. Non dice “Signore Dio” ma «Mio Signore e mio Dio». Dice “sei il mio unico Signore e il mio unico Dio, non esprime solo il riconoscimento di Gesù ma l’appartenenza piena a Lui, lo slancio, l’amore.
Tommaso, purtroppo, lo si presenta come l’uomo del dubbio, della mancanza di fede in mezzo ad una comunità di veri credenti. Ma, se leggiamo bene i Vangeli, troviamo, soprattutto nei racconti delle apparizioni di Gesù dopo la resurrezione, uomini e donne, discepoli e discepole dubbiosi, increduli, impauriti. Non è il solo…tutti noi siamo come lui. E Gesù affida il suo Vangelo non ai maestri, non ai sicuri, lontani da ogni esitazione, non ai mostri di perfezione cristiana. Ma proprio a noi che non ci sentiamo maestri, che non siamo al riparo dai dubbi, che siamo consapevoli delle nostre fragilità, dei nostri limiti, delle nostre debolezze.

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