SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Prosegue il nostro viaggio all’interno delle corsie ospedaliere per incontrare i primari di alcuni reparti dell’Ospedale Civile Madonna del Soccorso della nostra città. Oggi ospitiamo il Dott. Remo Di Matteo, Primario del Reparto di Ortopedia.

Dopo aver conseguito nel 2000 la Laurea con lode in Medicina e Chirurgia presso l’Università D’Annunzio di Chieti, nel 2005 ha ottenuto la Specializzazione in Ortopedia e Traumatologia sempre con lode. La sua formazione professionale è poi proseguita acquisendo il Master di 1° livello in Management delle Organizzazioni Sanitarie in Rete presso UNIPM Ancona ed il Master 2° livello in Chirurgia della Spalla. Dopo essere stato Dirigente Medico presso l’Unità Operativa di Ortopedia a Jesi, poi a Macerata ed infine a Camerino, dal 1° Dicembre 2020 è primario di reparto della Unità Operativa Complessa di Ortopedia di San Benedetto del Tronto Area Vasta 5. I suoi campi di particolare interesse sono la Chirurgia Protesica (anca, ginocchio, spalla), la Chirurgia Artroscopica, la Medicina Sportiva (ginocchio, spalla, caviglia) e la Traumatologia.

Com’è la situazione attuale nel suo reparto?
La situazione nel nostro reparto è molto cambiata da circa un anno. Da Marzo dello scorso anno, infatti, a seguito dell’emergenza Covid, la nostra Unità Operativa è stata accorpata all’Unità Operativa di Chirurgia per recuperare personale e posti letto da mettere a disposizione per questa pandemia. Da una degenza composta da 18 posti letto, si è passati quindi a soli 8 posti, il personale è stato notevolmente ridotto, ridistribuito e costretto ad adeguarsi a continui cambiamenti organizzativi. Personalmente sono arrivato alla Direzione del reparto di Ortopedia dal 01 Dicembre ed ho percepito subito un enorme stress lavorativo, unito ad un impegno professionale notevole. Il reparto conta solo su 7 colleghi Ortopedici; il personale del Comparto presta servizio contemporaneamente sia per i pazienti dell’Ortopedia che per quelli della Chirurgia ed è composto da 2 Coordinatrici e 21 operatori sanitari tra Infermieri ed Oss, di cui 3 svolgono servizio nell’ambulatorio ortopedico esterno alla degenza. Sono orgoglioso dei miei colleghi e di tutto il team: sicuramente siamo pochi, ma siamo una compagine motivata, professionale e soprattutto umana. Dirigere per me significa trasferire le proprie competenze e conoscenze, far sì che divengano patrimonio comune e siano la base per la continua crescita professionale di ciascuno. Sono felice di essere al loro fianco in ogni momento, anche in questi di particolare difficoltà a causa della pandemia.

Oltre al numero dei colleghi e agli spazi condivisi, cos’altro è cambiato in reparto, da quando è iniziata l’emergenza coronavirus?
Stanchezza, paura, a volte impotenza, ma anche speranza, coraggio e soddisfazione nel vedere pazienti sereni e guariti: sono queste le emozioni che proviamo da sempre ogni giorno e che questa pandemia ha solo rafforzato. Siamo costretti a lavorare indossando dispositivi di protezione individuale che rendono più complicata qualsiasi normale procedura; tutte le attività inoltre ruotano attorno alla continua esecuzione dei tamponi per il personale e per i pazienti; l’impossibilità di assistenza da parte dei familiari ha aumentato anche il carico di lavoro sia fisico che emotivo, ma nonostante tutto si sta tentando di trovare un equilibrio per il benessere di tutti.

Come riuscite a gestire la paura del paziente e a mantenere un rapporto di umanità nonostante le restrizioni?
I pazienti ricoverati a seguito di un trauma si ritrovano spesso smarriti, privati delle certezze, delle abitudini quotidiane e vivono i tempi anomali della giornata in ospedale. Un’esperienza, per loro, di solitudine ed alienazione e, proprio per questo, a volte accade che i più fragili si possano perdere in una grande confusione mentale. È utile sottolineare questo, anzi, per noi è un elemento importantissimo. Per quanto il reparto di Ortopedia si occupi normalmente di patologie che non portano ad estreme conseguenze, il dolore e la paura di questi tempi sono diventati purtroppo costanti nei nostri assistiti: perciò, accanto alla gestione farmacologica, che rimane fondamentale, mi preme sottolineare il lavoro encomiabile degli infermieri coadiuvati dalla Coordinatrice, veri angeli in corsia, capaci di unire alla competenza professionale quelle attenzioni che sono concrete espressioni di amore. Tutti sono speciali, gentili, sempre disponibili per alleviare le sofferenze dei pazienti, per offrire totale beneficio a livello psicologico e per tranquillizzare i loro familiari attraverso colloqui, videochiamate o telefonate. La loro altissima competenza e l’immenso amore per questa professione è una vera missione e, in questo momento di profonda crisi generale, sono un fondamentale tassello di aiuto, mai scontato, e di cui sono loro profondamente riconoscente.

C’è qualche paziente in questi mesi, che le è rimasto nel cuore più di altri? Perché?
Sono a San Benedetto da soli quattro mesi, non posso dire di avere un unico paziente rimasto particolarmente nel cuore, ma potrei dire qualcosa di ciascuno di loro. Ogni paziente che entra in reparto ha la sua storia particolare da raccontare e un bagaglio di sentimenti e emozioni da condividere: dietro ognuno di loro c’è una famiglia che, anche se non può ora essere presente fisicamente in reparto, conosciamo attraverso i racconti dei pazienti stessi o le telefonate con loro. Personalmente cerco di essere abbastanza presente in corsia, entro più volte durante la giornata nelle camere e spesso accade che, dialogando con i ricoverati, si arrivi a raccontare aneddoti o storie da cui c’è sempre da imparare! Ogni paziente è speciale.

Cosa si sente di dire a chi è ancora scettico all’esistenza del Covid?
Un anno di paura e non è ancora finita. Il nostro dolore, tantissimo. Ho visto gente incurante non rispettare le regole, ho visto gente continuare a viaggiare, uscire, bere, divertirsi, mentre le camere intensive dei nostri Ospedali ci avvisavano che i numeri continuavano a salire ancora. La pandemia sta mettendo a nudo i mali della nostra società. Forse chi si ostina a non rispettare semplici norme, chi nega l’esistenza di un virus che finora si è preso con sé più di 100.000 persone, forse dovrebbe scendere dal piedistallo di arroganza e presunzione sul quale è salito. La vita è una faccenda seria, esistono il dovere, la responsabilità, il buonsenso, il rispetto e questo momento delicato e complicato può diventare un’occasione di crescita. Credo che questo vada insegnato ai figli. Il virus c’è e va tenuto a bada. Siamo passati dal cantare sui balconi, in un’Italia ferita, all’offendere chi, da un anno lavora sul campo a rischio della propria vita. Si vede che molta gente ha nostalgia delle zone rosse, di aumento di ricoveri, di terapie intensive e di migliaia di morti. Da alcune persone tutto ciò è ignorato, come se la questione non li riguardasse, almeno finchè un giorno non saranno colpiti direttamente, ma magari allora sarà troppo tardi!

Come ha vissuto la vaccinazione?
Certamente da fare, favorevolissimo!!! Da quando sono stati scoperti e introdotti in campo medico, i vaccini hanno salvato milioni di vite. Essi sono sottoposti ad accurati controlli durante tutto il processo produttivo e prima della distribuzione con periodiche ispezioni. Il covid è molto contagioso. La vaccinazione, pertanto, è per ora l’unico rimedio efficace, accanto alle regole comportamentali e di igiene, per raggiungere l’obiettivo principale, ossia ridurre il numero di decessi e decorsi gravi. Noi tutti riponiamo in essi, grandi aspettative.

Nonostante le restrizioni a cui siamo tutti sottoposti e la maggiore fatica quotidiana che la sua professione richiede, c’è qualcosa di positivo che la pandemia le ha lasciato?
Sicuramente, per noi che ci lavoriamo, l’Ospedale è fatto di abitudine e costanza, di luoghi, di persone che incontriamo, colleghi, infermieri, pazienti, una routine uguale e diversa di giorno in giorno, che questa pandemia ha a tratti certamente reso più dura da affrontare, ma ha anche fatto emergere ancora di più la necessità di lavorare insieme per tendere sempre a migliorare. A volte ci sono momenti e situazioni fortemente stressanti, ma anche altri decisamente avvolgenti e rassicuranti. Potrei facilmente paragonare il nostro lavoro quotidiano ad una grande famiglia fatta di rapporti, consuetudini sperimentate, conoscenze, amicizie, ognuno con il suo particolare ruolo professionale, ma tutti uniti per il bene di ciascuno.

Come è cambiata la sua vita personale da quando è iniziata l’emergenza Coronavirus?
La situazione che stiamo vivendo sta trasformando molti aspetti della nostra vita e la mia vita è cambiata un po’ come quella di ciascuno di noi. Il lavoro mi richiede molto più tempo da trascorrere in ospedale con tutte le disposizioni da seguire e i continui adeguamenti ad una situazione che è in continuo mutamento. Il resto del tempo lo dedico totalmente alla mia famiglia, a mia moglie e alle mie bimbe: anche io, come tutti i genitori, sono coinvolto con le lezioni in dad e con tutte le dovute attenzioni da tenere ogni giorno a casa. Poi ci sono le rinunce: lo sport, le uscite con gli amici, le cene, rinunce che sono state chieste ad ognuno. Anch’io, come molti, vivo queste rinunce con il desiderio di tornare prima possibile alla normalità, ma sempre con estremo rigore, convinto che tutto questo, dalle restrizioni ai dispositivi di protezione da indossare sempre, sia un atto d’amore da vivere verso se stessi e verso gli altri.

Che messaggio si sente di dare ai nostri lettori
Sono stati mesi indimenticabili per tutti noi. Il crollo delle certezze ha arrecato dolore, smarrimento e perdite, ma ha anche portato una percezione differente di ciò che da questa vita ci attendiamo. Un giorno racconteremo tutto questo a chi non lo ha vissuto. Il racconto dell’anno in cui il mondo si fermò! Un mondo fatto di mascherine, messe con convinzione alterna, di sguardi che si incrociano da lontano. Chissà quanto impiegheremo a riabituarci alla normalità, a invitare gli amici a casa, a progettare un viaggio, a stringere le mani, ad abbracciare i nostri affetti! Non lo sappiamo con certezza, ma sappiamo bene che quel momento arriverà. Tra persone già vaccinate, il virus man mano non troverà più terreno per fare danni. Scienziati di ogni branca scriveranno libri per decenni e la pandemia avrà il suo triste posto nella storia dell’umanità. Alla fine tutti noi dovremo raccogliere i nostri “cocci” esistenziali e cercare di rimetterli insieme. Non sarà facile, ma per quanto “resilienza” sia un termine molto abusato, sarà proprio la resilienza a salvarci tutti.

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1 commento

  • Antonio
    07/04/2021 alle 18:43

    Tutto ok ma mia moglie deve operarsi ai tendini della spalla ed è in attesa dalla fine dello scorso anno.

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