Di Pietro Pompei

Potrebbe apparire di cattivo gusto iniziare questa mia riflessione  partendo dalla descrizione di una lapide posta sulla tomba di una matrona romana : Domum servavit, lanam fecit”, che fa tutt’uno con “Domi mansit, lanam fecit”, ad indicare lo stereotipo della donna che è rimasto fino a qualche decennio fa, se è vero l’aneddoto di Vittorio Emanuele III di Savoia che per dissuadere Maria Josè, moglie di Umberto II, di impicciarsi di politica, le ricordava che le donne devono stare in casa e “fare la calza”. (E’ la donna di una volta come viene ben descritta dal poeta dialettale ripano, Alfredo Rossi, nella raccolta “ Li penziera in libbertà”).

Questa è stata la condizione femminile in generale, salvo rare eccezioni come quella ricordata da Virgilio nell’Eneide, parlando di Didone “Dux femina facti” (Una donna è il capo dell’impresa)  con qualche ironia;  e come quelle di matrone e principesse, donne i cui disagi, le cui pene, i cui drammi, i cui amori, ed anche le cui imprese, la storia, la letteratura si sono incaricate di tramandare fino a noi. (Sul libro di Giorgio Settimo: “Cenni sulla storia della Cultura e dell’Arte a Ripatransone” e ancor più sul libro “Vicende Ripane” di Alfredo Rossi, si può leggere la storia delle colombine, a ricordo della vittoria della popolazione ripana su i mercenari spagnoli di Garcia Mondriguez “ a cui contribuirono efficacemente le eroine ripane Donna Bianca De Tharolis- Benvignati, Angela moglie di Zingaro, Luchina Saccoccia”. Episodio questo preceduto da un’altra tragedia che ebbe per protagonista una sconosciuta a cui fu dato il nome Virginia, desunto da un analogo episodio preso dalla storia romana. Questa Virginia fu pugnalata dal padre per sottrarla alle voglie dei conquistatori. Episodio riprodotto sul sipario del “teatro Mercantini” ad opera di Giuseppe Ruffini da Falerone tra il 1870-1876).

Quali poi, di  che spessore e di che ampiezza siano stati i disagi, le pene e i drammi di quelle altre donne private di personalità propria, addette al servizio o ad attività umilissime, svolte spesso in ambienti bui e malsani, la storia non entra e non dice nulla, preoccupata solo di imbalsamare, come dice ironicamente il Manzoni “le imprese de’ Principi e Potentati, e qualificati Personaggi”. Sola la fantasia, incuneandosi tra le pieghe delle cronache, riesce a sospettare e far sospettare la terribile realtà delle dimenticate, delle emarginate ed è la stessa a farci scoprire le grandi menzogne della cosiddetta “verità” e delle spiegazioni, con cui è stato stravolto il cammino della storia, occultandoci anche “l’altra metà del cielo”come eufemisticamente è stata chiamata la parte femminile.

Facendo leva sulla pretesa inferiorità della donna rispetto all’uomo, e ricorrendo a vezzosi ritrovati, quali attributi assegnati alla femminilità, si sono costituiti luoghi comuni di stereotipi culturali che hanno fatto passare per qualità eterne e naturali quelli che sono veri e propri pregiudizi, non neutrali, perché essi sono serviti come copertura di privilegi acquisiti. L’ideologia della femminilità è stata utile per discriminare la donna dal campo delle competizioni dirette, per relegarla ai lavori umili e subalterni.

La II guerra mondiale, ha portato a un necessario ravvedimento e ad un ripensamento  dei compiti da attribuirsi all’uno e all’altro sesso, data la dimostrata capacità delle donne a sostituire gli uomini assenti per dovere di patria. E’ apparso quello che fino allora, pur essendoci, non veniva esplicitato, tanto le stesse donne erano convinte, non essere il loro compito.

Questo mio piccolo scritto vuole essere un tributo  sincero di riconoscenza verso le donne delle precedenti generazioni, convinto che “ alle donne marchigiane di una volta – come ricordo di aver letto in un libro di qualche anno fa – possiamo e dobbiamo attribuire, a pieno titolo, il merito di aver costruito quella mentalità, quel modo di essere che, trasferito sul piano imprenditoriale, ha permesso di creare il modello marchigiano intessuto di creatività, tenacia, laboriosità e competenza”.

Noi che siamo vissuti a cavallo dell’ultima grande guerra, pur benedicendo il progresso che ci ha tolto da una vita difficile e grama, siamo presi spesso da una certa nostalgia per un mondo passato fatto di tradizioni dimenticate, di vissute parentele, di paesanità: un mondo animato spesso da ingenue paure, da superstizioni, da un retaggio di paganeggianti attribuzioni, di rispetto sacro per la natura e per le stagioni, per la maternità, la famiglia, per l’ingenuità dei bambini e la saggezza dei vecchi; un mondo in cui la Provvidenza implorata dal cielo non era semplice rassegnazione. Questa nostalgia che abbiamo trasmesso alle nuove generazioni è sicuramente alla base della gara che si svolge tra vari paesi nel ripristinare  sagre, usanze, costumi  e piatti d’epoca; tutto questo vorrebbe essere remoto, ma spesso, in realtà non oltrepassa i  70/ 90 anni.

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *