DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

La pagina evangelica che oggi la liturgia ci propone è tratta dal Vangelo di Giovanni. Siamo agli inizi del suo scritto, al secondo capitolo. Ma, a differenza degli altri evangelisti, Giovanni non ci racconta la storia del Gesù Bambino, povero, umile, nato da Maria, custodito da Giuseppe, cantato dagli angeli. Giovanni ci descrive Gesù come un vero e proprio contestatore, un accusatore, addirittura un provocatore. Un Gesù che inizia la sua vita dicendo “così non va!”.

Siamo nel tempio di Gerusalemme, in prossimità della Pasqua. Gesù «trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi».

Ma, spieghiamo il perché della presenza dei venditori e dei cambiamonete.

Praticamente la prassi era questa: vuoi offrire un sacrificio nel tempio? Devi comprare degli animali. Ma, per l’acquisto, non è possibile utilizzare la moneta della tua terra, devi cambiare i soldi secondo la nostra valuta.

Perché Gesù contesta questo tempio, questa forma di culto?

Perché si tratta di un tempio, di un culto che vuole che, prima di tutto, tu rinneghi te stesso, la tua identità culturale, di pensiero, la tua sensibilità. Ecco il significato vero del “cambiare moneta”: si entra nel tempio solo rinunciando alla propria originalità, libertà, essenza, solo adeguandosi, uniformandosi a chi nel tempio ha già diritto di stare.

Cosa significa tutto questo per noi? Oggi non ci sono buoi, pecore, colombe, cambiamonete agli ingressi delle nostre chiese. Ma può esserci una barriera, possono esserci dei muri che dicono “fino a che tu sei come sei, non puoi entrare”. Cambia, adattati, rientra nella norma del classico bravo fedele e potrai entrare.

Ma, se la mentalità è quella del “cambiamonete”, lo spirito religioso è quello del “io ti do, tu mi dai”.

Un Dio, cioè, che ci paga per quello che facciamo, un Dio pagatore delle nostre buone azioni: “osserva le legge così andrai in paradiso!”

Un sovrano da imbonire, da riverire, da comprare. Un Dio con cui scambiare merce: il nostro merito per il suo premio, i nostri sacrifici per la sua benevolenza, le nostre opere per il suo favore. Solo un rapporto di dare/avere…che Gesù mette completamente a soqquadro.

Perché tutto questo non c’entra nulla con il Dio di Gesù Cristo!

Il mercato non è il demonio, assolutamente, ma la sua è una logica che non può essere applicata al rapporto tra Dio e l’uomo. Misericordia, perdono, pazienza, lungimiranza, tenerezza sono escluse dal mercato. Leggiamo, invece, nel salmo che la legge del Signore rinfranca l’anima, fa gioire il cuore, illumina gli occhi…non sono i termini di un rapporto formale ma di una relazione d’amore vera e propria. Si parla di anima, di cuore, di occhi, di gioia, di consolazione ed ancora di saggezza, di fedeltà, di giustizia.

E questo è anche il senso dei dieci comandamenti, o meglio delle dieci Parole che Dio dona al suo popolo Israele sul monte Sinai, attraverso Mosè, lo leggiamo nella prima lettura. Parole che continua a donare ogni giorno a ciascuno di noi. Non un codice di condotta morale, non un percorso a punti per cui più lo seguiamo più scaliamo la classifica dei bravi e diligenti cristiani ma leggi, precetti, comandi che non sono altro che parole d’amore di cui Dio ci ricolma affinché abbiamo la possibilità di riconoscere e scegliere nella nostra esistenza il bene, il buono, la vita.

 

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