Edoardo Tincani

A volte basta poco per cambiare l’umore di qualcuno. Più volte colgo in me il forte desiderio di poter fare tutto il possibile per rendere gli altri contenti; anche aiutando a vedere la stessa realtà ma con l’ottimismo di chi il bicchiere lo vede mezzo pieno, anziché mezzo vuoto. È prevalso il tempo trascorso nelle camere fra un malato e l’altro, soprattutto per ascoltare i loro racconti; sedersi accanto (nella distanza di sicurezza concessa) per immergersi nei loro ricordi e passioni, essere coinvolti dai loro sogni, desideri e progetti, ma anche condividere e giustificare le loro paure e fatiche. In quei momenti mi è stato concesso di essere una presenza importante mandata dalla Provvidenza; un vero e proprio strumento del Signore inviato lì per infondere calore e per garantire a quel malato il sostegno donato da una presenza umana e divina insieme”. Con queste parole don Giuliano commenta sul giornale diocesano di Reggio Emilia-Guastalla, “La Libertà”, il suo servizio in un reparto ospedaliero Covid.“Nulla di speciale, in fondo: prendersi cura di un bisognoso ci permette di sperimentare quanto nel Vangelo ci viene raccontato del buon samaritano: modello di vita da fare nostro sempre, al di là di ogni nostra specifica vocazione”,aggiunge il sacerdote, che è collaboratore nell’unità pastorale “Regina della Pace” di Casalgrande e Salvaterra (Reggio Emilia).E come don Giuliano ci sono altri presbiteri, una ventina in tutto, che hanno chiesto e ottenuto di entrare nei reparti Covid per portare il conforto dei sacramenti e una parola di speranza negli ospedali di Reggio Emilia, Guastalla e Scandiano:6 giorni su 7, con turni dalle 13 alle 20, nella più rigorosa osservanza dei controlli a cui essi per primi si sottopongono e nel rispetto della libertà di coscienza dei cittadini. Un segno di consolazione divenuto concreto grazie a una convenzione firmata dal direttore generale dell’Ausl-Irccs di Reggio Emilia Cristina Marchesi e dal pastore della Chiesa reggiano-guastallese Massimo Camisasca.

“È stata ed è per me una priorità in questo tempo di Coronavirus, sia durante la prima che la seconda ondata della pandemia, assicurare la presenza di sacerdoti all’interno degli ospedali”, afferma mons. Camisasca. E aggiunge:“Garantire la vicinanza di un prete a chi è gravemente malato o sta morendo è la più alta forma di carità che la Chiesa possa esprimere.Accompagnare chi muore all’ultimo passo è il dono più importante che possiamo fare ai nostri fratelli. Non c’è infatti solitudine più grande di quella della morte. La presenza del sacerdote alimenta la speranza che l’incontro con Dio sia un incontro vitale, rappresenti l’inizio di una nuova vita”.
L’idea iniziale, maturata anche grazie alla testimonianza di don Alberto Debbi, pneumologo tuttora operante a chiamata presso l’Ospedale di Sassuolo, ha incontrato l’appoggio dei vertici dell’Ausl-Irccs.Sono seguite, da parte della Chiesa diocesana, le richieste di disponibilità ai sacerdoti, individuando come potenzialmente idonei quelli di età inferiore ai 60 anni. Quanti hanno risposto all’appello hanno subito intrapreso un cammino di formazione online; insieme ai preti disponibili, agli incontri preparatori partecipano sia funzionari dell’Azienda sanitaria, che ne curano l’addestramento, sia membri di un’équipe diocesana, che offre un percorso di sostegno.
“Offrire un supporto psicologico e spirituale – sottolinea mons. Alberto Nicelli, vicario generale – può costituire un sollievo in primo luogo per i malati;la presenza dei sacerdoti dà poi sostegno alla loro comunicazione, attraverso telefoni e tablet, con i familiari lontani; rappresenta altresì un aiuto al personale medico-sanitario, affaticato e spesso provato in prima persona dal virus”.Azienda sanitaria e diocesi hanno condiviso la consapevolezza che l’assistenza spirituale può essere in tantissimi casi un “quid” che si aggiunge alle competenze scientifiche e all’azione terapeutica.

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