Patrizia Caiffa

L’odissea dei migranti che passano dalla rotta balcanica, dalla Turchia all’inferno dell’isola di Lesbo e poi in Bosnia-Erzegovina (o in Croazia), si interrompe lì, alla frontiera, dove il miraggio dell’Europa è vicino ma più crudo che mai. Un migliaio di giovani uomini, da Siria, Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e dai Paesi del Maghreb e dell’Africa sub-sahariana, sono bloccati in una situazione disumana, in strada o in ripari di fortuna al gelo e senza aiuti, trattati “peggio delle bestie, al confine con l’Europa, con le temperature che toccano i 10 gradi sotto lo zero”. Lo racconta al Sir da Sarajevo Daniele Bombardi, coordinatore di Caritas italiana nei Balcani.

Daniele Bombardi, coordinatore Caritas italiana nei Balcani

“Una catastrofe umanitaria”. Nei giorni scorsi Caritas italiana ha lanciato l’allarme sulla “catastrofe umanitaria” in corso in quelle zone, chiedendo l’intervento dell’Unione europea e dei governi. In Bosnia, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, vi sono 8.000 persone migranti, di cui 5.000 nei campi (i più vulnerabili, come famiglie e minori soli) e 3.000 in sistemazioni dei fortuna. La metà sono famiglie con bambini.

Il campo di Lipa. Nelle condizioni peggiori sono però gli uomini nei pressi di Bihac. Qui il governo sta ricostruendo il campo di Lipa, andato distrutto in un incendio, in un posto isolato, impervio e pericoloso in montagna, lontano dagli occhi delle popolazioni locali, che hanno inscenato feroci proteste contro i migranti. A Lipa l’esercito bosniaco sta allestendo tende, ma

“rischiano di morire di freddo. Non c’è acqua potabile, riscaldamento, energia elettrica.

Non ci sono gli standard minimi per il rispetto della dignità e dei diritti umani. E’ una decisione folle che condanniamo”.

L’alternativa: il campo di Bira. Le Ong per protesta si rifiutano di lavorare a Lipa e chiedono a gran voce che sia trovata una alternativa: ad esempio riaprendo il campo di Bira, una ex fabbrica abbandonata alla periferia di Bihac, ad una trentina di chilometri. La Caritas sta decidendo se intervenire o meno, intanto fa arrivare a Lipa tramite la Croce rossa quello che può: cibo, acqua e legna per accendere i fuochi. La prospettiva di riaprire il campo di Bira, a 20/30 chilometri da quello di Lipa, è però fortemente contrastata dai sindaci e dai cittadini, che sono scesi in piazza. Perfino i vigili del fuoco hanno schierato i loro automezzi per impedirne la riapertura. “Sarebbe la soluzione migliore per aiutare le persone almeno a passare l’inverno – dice l’operatore Caritas – ma il clima si è guastato. Oramai si è arrivati ad un muro contro muro”. Senza una mediazione si rischia l’impasse. “Non sappiamo cosa accade nei boschi alla frontiera, se ci sono persone che muoiono.

Ma la tragedia è dietro l’angolo”.

Il campo di Lipa dopo l’incendio – foto Ipsia/Acli

Il paradosso. “Il paradosso è che l’Ue e l’Oim hanno stanziato soldi per l’allestimento di campi, che probabilmente non verranno usati – afferma Bombardi -. Il governo, pur di non perdere il consenso della popolazione , sta usando la strategia di allontanare i migranti dalla loro vista e probabilmente pagherà di tasca propria”. In seguito alle denunce delle organizzazioni umanitarie si è attivata un’azione di lobby tramite le ambasciate e la Chiesa locale “ma l’impressione è che il governo non reagisca nemmeno alle pressioni dell’Ue”.

Legna da ardere per riscaldarsi nel campo di Lipa. foto: Ipsia/Acli

The game. Le frontiere croate e bosniache sono tristemente famose alle cronache per “the game”: così è chiamato il “gioco” dei giovani migranti che tentano di passare a piedi la frontiera per entrare in Europa, nonostante i controlli sempre più serrati con droni e pattuglie di polizia. Il più delle volte vengono respinti in malo modo. “Tornano indietro dopo essere stati malmenati – racconta Bombardi – senza più soldi, documenti, telefonini. C’è molta violenza. Ma non si dà loro né la possibilità di andare avanti né una sistemazione dignitosa in un campo”.

Le famiglie con bambini. Va un po’ meglio alle famiglie con bambini, accolti in strutture idonee con pasti, servizi igienici e riscaldamento e la presenza del terzo settore. Ma anche loro, vista la quasi impossibilità di ricollocamenti legali, tenteranno in primavera di passare il confine affidandosi ai trafficanti, per ricongiungersi ad amici e parenti in Austria, Germania o Italia. Tutto ciò in un contesto di pandemia da Covid-19 minimizzato dai pochi tamponi effettuati – vengono fatti solo ai sintomatici e non ai contatti stretti – e poche precauzioni, tranne le mascherine obbligatorie e il coprifuoco dalle 11 alle 5. A Capodanno, ad esempio, sono morti 8 ragazzi per avvelenamento da monossido di carbonio. Al funerale erano presenti migliaia di persone. Gli operatori umanitari cercano di utilizzare tutte le cautele ma il rischio rimane comunque alto.

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