Pubblichiamo il racconto d Padre Leopoldo Cristinelli

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – A seguito del disastroso terremoto dell’IRPINIA del 23 Novembre ’80 (magnitudo 7 scala Richter, epicentro a Conza), in comunità si prende iniziativa per una presenza di aiuto in loco. Padre Leopoldo, che insegna al corso infermieri, ne parla con Suor Ivana Liberati (Direttrice del Corso) e con gli allievi e si concorda una partecipazione di non più di 5 allievi, per motivi di varia opportunità. Gli allievi, oggi tutti professionisti affermati, sono ,in ordine alfabetico, Alesi Cesare, Foresi Lucio, Gambini Eulalia, Lanciotti Giovanni, Paolo…..(si era spostato al nord per lavoro e non ricordiamo il cognome) e naturalmente Padre Leopoldo Cristinelli. Ragazzi in gamba, molto diversi e complementari: chi, esperto in relazioni pubbliche, risolve il problema del nostro accampamento dentro l’Ospedale, chi mio aiutante in campo per la celebrazione mattutina, chi irremovibile (!) al tavolo di lavoro anche al momento di una scossa dell’11° grado Mercalli…
Si parte il 28 Novembre per Avellino e, secondo accordi precedentemente presi con il Ministero dell’Interno tramite uno dei telefoni attivati per l’emergenza, ci presentiamo alla Caserma Berardo di Avellino per ricevere istruzioni. Arriviamo alla caserma a sera assai inoltrata: ci viene chiesto (poiché si tratta di un gruppo di infermieri) di presentarci all’Ospedale di Bisaccia, l’unico rimasto in piedi dell’Irpinia: l’ospedale, ancora non inaugurato al momento del terremoto, è ora attivo a pieno regime. Non riteniamo prudente avventurarci su strade terremotate al buio, pertanto passiamo la notte “in caserma”: chi dormendo (?) sul pulmino, chi su qualche cassapanca all’interno della caserma stessa, tenuti vigili (se ce ne fosse stato bisogno !) da frequenti anche se non rilevanti scosse di terremoto, che vengono sì dette di assestamento, ma che non ci aiutano certo ad assestarci sui nostri già scomodi giacigli.
Salutiamo volentieri le prime luci dell’alba e partiamo per l’Ospedale di Bisaccia. Ci presentiamo agli “uffici di emergenza” dell’Ospedale (Presidente Filippo Quatrale) : ci viene chiesto di svolgere attività infermieristica in collaborazione con altre presenze professionali sanitarie. Sono presenti infatti in forma ufficiale , dal Cardarelli di Napoli e dal Martini di Torino, sanitari di varie specializzazioni con relative attrezzature mobili di diagnosi. Saremo raggiunti a breve, anche dal nostro Ospedale di SBT, da personale specializzato e attrezzato.
Organizziamo la nostra collaborazione in Ospedale in modo da essere presenti e attivi (nel nostro piccolo, ma davvero molto piccolo in rapporto al panorama di distruzione e di solidarietà che ci circonda!) alle operazioni di ricerca delle persone sotto le macerie (ormai, salvo pochi casi, morte). Ovviamente per qs ricerca sono presenti corpi specializzati (ricordo, tra gli altri, anche vigili del fuoco francesi). Abbiamo avuto modo di fare esperienza di una procedura di ricerca-verifica della presenza di eventuali terremotati superstiti sotto le macerie: si sospendono tutti i rumori, fermando ovviamente anche le macchine di scavo-rimozione, in una vasta zona anche lontana dal punto di ricerca; si percuote con forza una colonna di abitazione crollata o altro punto in grado di trasmettere in profondità il segnale sonoro e, con strumenti sofisticati di auscultazione, si attende una eventuale risposta vocale, ormai difficile alla data del nostro arrivo, ma anche solo di piccole percussioni che il terremotato potrebbe riuscire in qualche modo a realizzate sulle macerie che lo contornano. Il nostro lavoro però di fatto si limita alla rimozione della macerie con le mani, dove non può o non è opportuno che intervenga la macchina. Non sempre abbiamo i guanti e quando ne ho avuto un paio mi sono stati chiesti da persona preoccupata giustamente dei rischi di infezione con insistenza segnalati per gli scavatori senza guanti. Sapendo che ero sacerdote mi ha fatto capire che io ero protetto, e così fu.
Ricordo qui un solo fatto occorso a me a Lioni, dove abbiamo svolta la nostra piccola collaborazione manuale (i miei amici infermieri avranno a loro volta molte cose da raccontare e chissà che non riusciamo a ricuperare le memorie di tutti loro!). Si stava scavando-rimuovendo manualmente le macerie di una casa di più piani in cemento armato, che nel crollo si era avvitata su se stessa al punto che i piani alti di est si trovavano quasi a ovest. Avevamo assistito all’ estrazione dalle macerie di questa casa di alcune persone dei piani alti che si capiva erano state sorprese dal terremoto mentre giocavano a carte.
Personalmente ero impegnato a rimuovere le macerie di un appartamento che era al piano terra di questa casa e a raccogliere eventuali oggetti che potessero essere di qualche utilità, anche solo affettiva, per i superstiti. Poi ricostruirò: gli inquilini di questo appartamento, la madre e due ragazze di 1.a e 3.a Media, erano decedute nel terremoto, mentre il padre era assente per lavoro. Caricavo le macerie in una cesta di quelle che usano i fornai per il pane e le scaricavo poco lontano, mentre gli oggetti che ritenevo utili li collocavo nel garage al pianterreno di una casa appena di fronte (8-10 metri), costruita con materiali molto leggeri ma che aveva resistito al terremoto meglio di “quel” cemento armato. La mia età ancora sufficientemente giovanile e il mio allenamento sportivo e soprattutto le forti motivazioni mi permettevano di fare questo lavoro con buona lena e disinvoltura, nonostante il carico non leggero della cesta piena di macerie
Rimosse le principali macerie di superficie, raggiungo un settore dove trovo materiali di uso scolastico. Pur nella brevità vedo i nomi, le classi, i compiti ben eseguiti su quaderni ordinati. I testi scolastici li riconosco bene perché sto insegnando nelle stesse classi delle due ragazze: mi pare di vedere le due sorelle al tavolo per i compiti e sullo sfondo i miei ragazzi-alunni di Montegranaro…Ma non c’è tempo per pensieri inutili… Così metto libri e quaderni nella cesta, quasi con distacco e noncuranza, per difendermi da pensieri e sentimenti che insisto volutamente a considerare improduttivi per il lavoro che mi è stato affidato. Avevo riempita la cesta, certo molto più leggera della cesta piena di macerie, quando mi si avvicina e mi parla un uomo che, anche se un po’ distrattamente da parte mia , avevo notato seguire il mio lavoro. Era un uomo dalla corporatura asciutta, vestito modestamente, dell’apparente età di circa 35-40 anni: il viso indurito dal dolore, ma contenuto e dignitoso.Mi si avvicina: io sono emigrato in Germania per lavoro, questi sono i libri delle mie due bambine… Poi lascia a se stesso (per la verità anche a me) una breve pausa, che a me è parsa interminabile e mi chiede: posso aiutarla a portare questa cesta…
Io, che avevo già preso la cesta con due mani, più che sollevarla, a quel punto mi ci appoggiai con tutto il peso mio e di quello molto più greve della sofferenza che mi aveva trasmesso l’uomo che mi stava davanti. Poi, senza dirci nulla, io presi la cesta da un versante e lui dall’altro: credevo di non riuscire a sollevarla e giunsi con affanno al vicino garage. Depositammo la cesta senza vuotarla: il contenuto era troppo prezioso.
Ci rialzammo e involontariamente incrociammo gli occhi; ma io fui lesto a distrarli dai suoi… In piedi, sul limitare del garage, gli misi una mano sulla spalla. Non so quanti secondi…, quanto anni…, perché mi pare che ancora la mano non l’ho ritirata. Poi mi allontano senza dir nulla e riprendo con apparente naturalezza il mio lavoro…, ma dall’altra parte della casa: non intendo incrociare il suo sguardo, né banalizzare il suo dolore con parole.

L’altro momento di vita del piccolo gruppo dei miei amici allievi infermieri si svolge all’interno dell’Ospedale di Bisaccia: loro collaborando con il personale sanitario, mentre io, unico sacerdote presente, mi autonomino cappellano con il pieno consenso del Presidente Quatrale, che rilascerà anche una dichiarazione di servizio per la scuola ( Duro apprendistato di un futuro spazio pastorale? 20 anni dopo il sottoscritto svolgerà attività da Cappellano all’Ospedale di S.Benedetto del Tronto, condividendo lo spazio di lavoro di alcuni dei miei amici, allora allievi, di “avventura” irpina). Ogni mattina, molto presto, celebrerò e distribuirò la Comunione. Poi il gruppetto si divide: chi assiste i malati e chi viene con me a Lioni, luogo della nostra collaborazione manuale alla rimozione della macerie.
Ricorderò anche qui un solo fatto: la morte di una anziana Signora che chiamerò Angelica, perché nonostante i suoi quasi novant’anni e la prossimità alla morte, mostrava un viso e un sorriso angelico, quasi incoraggiando me un pò affannato per la salita di 5 piani a seguito di segnalazione dell’urgenza (ore 23) da parte di un giovane dottore di Cosenza. Angelica – era la mia prima esperienza al letto di un moribondo – mi aiutava, interpretando e completando le espressioni di fede e speranza che le andavo suggerendo. Si sentiva serenamente e fortemente affidata al Signore e mi diceva: Padre, io non ho paura della morte. So che questa notte morirò. Io ho paura del terremoto. Morirà all’una di notte, e io non posso scordare la bellezza spirituale e la serenità di quel volto.

Dell’andamento gioviale e impegnato del gruppo di allievi-infermieri si potrebbero raccontare molte cose significative e oerfino piacevoli, nonostante il contesto drammatico. Ricordo solo la scossa dell’11° grado di cui sopra e l’ultima notte passata in Irpinia.

Era di sera, forse del terzo giorno della nostra presenza a Bisaccia. Siamo colti di sorpresa da una scossa dell’11° grado Mercalli. Al quinto piano, dove stazionavamo con gli ammalati in quel momento, al moto sussultorio ma anche accentuatamente ondulatorio di tutta la struttura facevano eco i preoccupanti rumori delle colonne in cemento armato, rumori come di legni secchi che si spezzano. La prima reazione è di conservazione: anche il Padre inizia la discesa della scala camminando sulle unghie dei piedi, “pudoratamente” incerto sul da fare, come farebbe un gatto che tenta di frenare sulle unghie la sua corsa su un pavimento liscio. Vengo sorpassato “molto atleticamente” da qualcuno più giovane, ovviamente e giustamente con un diritto di vita più lungo del mio. Dopo qualche gradino mi rendo conto, con un travaso oceanico di adrenalina oltre che di razional-pudore, dell’opportunità di tornare indietro verso i malati che non sono per lo più in condizioni di fuga, ricevendo nel frattempo un buon contributo di energia dal grido di una suora che, con accento chiaramente veneto, saliva le scale provenendo dal piano terra e gridando: i malati! Percorro abbastanza sollecitamente la varie camerate del 5° piano, parlando veramente con molta calma –vedi l’adrenalina!- e incoraggiando gli ammalati, anche –non solo- con qualche frase di circostanza, del tipo: sono gli ultimi colpi di coda del terremoto (ma che coda!). Mentre credo di svolgere una seppur piccola azione calmante in una camerata, entra il dottore di Cosenza sopra ricordato (peccato non aver segnato il nome, perché l’ho conosciuto come persona squisita sotto ogni riguardo) : mi seguiva nelle camerate svolgendo la stessa azione calmante, ma vuoi per povertà di adrenalina, vuoi per la corsa fatta salendo dai piani bassi, vuoi soprattutto per il pericolo corso, parlava con tale agitazione e ansia da consigliarmi di prenderlo sotto braccio e continuare il giro insieme, lasciando a me il ruolo di verbalizzare un’ apparente tranquillità.

L’ultima notte. Le scosse di terremoto, anche se per lo più di lieve entità, sono state continue: così alcuni hanno dormito nel pulmino, uno ha vegliato nell’atrio d’ingresso dell’Ospedale con lo zaino sulle spalle, pronto a uscire all’aperto ad ogni scossa , altri, appesantiti dalla stanchezza e indispettiti dalla prepotenza del terremoto, lo hanno sfidato dormendo dentro l’Ospedale (?). Nevicò tutta la notte. Sveglia speciale al mattino per quelli che hanno dormito in sicurezza nel pulmino: pressando con forza e ripetutamente sul paraurti posteriore del pulmino stesso, quelli che hanno passato la notte con qualche apprensione in ospedale trasmettono un’idea così violenta di terremoto agli inquilini del pulmino da consigliare senza incertezze un tuffo nella abbondante neve esterna.
Si riparte per casa facendo un giro inusuale, voluto per memorizzare immagini della tragedia: il nostro percorso era stato costantemente solo verso Lioni. A Conza, il paese più disastrato per numero delle vittime, siamo stati avvolti da un senso di morte totale, sia per la completa distruzione delle case che per gli insopportabili miasmi da cadavere che ci hanno consigliato un prudente veloce allontanamento.
Per 8 km circa ci ha trainato il pulmino dell’Ospedale di SBT che rientrava dopo aver portato il personale di cui abbiamo detto sopra. Provvidenziale: ci sono voluti tutti questi km per asciugare la calotta del nostro pulmino che si era incrinata nelle partenze mattutine, per le basse temperature, non solo notturne, del dicembre irpino.

Tra la varie persone incontrate in Ospedale ho preso nota di alcune per le quali abbiamo messo in atto qualche gesto di solidarietà: piccolo contributo pecuniario o acquisto di ciabatte e biancheria essenziale. Mediavamo anche le richieste di informazione sulla parentela dei terremotati ricoverati, se sopravvissuta o meno: ovviamente passavamo la richiesta alla organizzazione dell’Ospedale che a sua volta inoltrava la richiesta al centro del Ministero dell’Interno o alla Caserma Berardo di Avellino.

Totale distribuito a varie persone ricoverate £ 1.036.000: una goccia sulla lingua riarsa di alcuni tra i molti assetati, ma era anche tutta la disponibilità del momento.

Due sole annotazioni finali.
– Due Evangeliche mal sopportavano la presenza del sacerdote, che si vendicò. I ricoverati erano quasi tutti a piedi nudi! e in Bisaccia paese -di fatto risparmiato dal terremoto- avevano terremotati i prezzi, almeno con noi estranei. Le prime ciabatte che son riuscito ad acquistare le ho portate alle due evangeliche che, disorientate da questo comportamento strano del padre, improvvisarono un pianto di riconoscenza.
– Due signore, appartenenti ai Testimoni di Geova, si lamentavano con il Sacerdote perché i loro mariti ricoverati, essi pure Testimoni di G., facevano la Comunione. Il Padre, che non li conosceva né come loro mariti né come Test.di G., spiegò che faceva la Comunione solo a quelli che la chiedevano espressamente. Poiché le signore non si capacitavano di questo comportamento, il padre abbozzò una ipotesi: Vuoi vedere che il terremoto…squassando le case ha sistemato le  idee? Il tutto detto il più cordialmente possibile, per lasciare un margine di ripensamento …

“Serva questo a ricordare un’esperienza che senz’altro lascia un segno in ognuno di noi”. Cesare Alesi

Non avevamo macchina fotografica, né avremmo ardito usarla, ma Cesare Alesi ha fermato magistralmente con la penna non solo un’ immagine di casa diroccata di Lioni, che noi tutti ben ricordiamo, ma anche lo  spessore dell’esperienza di distruzione e di dolore che ci ha attraversato in quei giorni..

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