DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

È alquanto paradossale che oggi, domenica della Solennità di Cristo Re, la Parola ci presenti il Signore nella figura di un pastore.
Un pastore re?? Qual è il trono di un pastore? E qual è il suo scettro? Dov’è la gloria, la potenza in un pastore? Dov’è la forza?

Il pastore non ha un trono, il pastore, scrive il profeta Ezechiele, è in mezzo al suo gregge, passa in rassegna le sue pecore per verificare se ce ne sono di disperse.

Il pastore non ha un trono perché si muove sempre in cerca delle pecore smarrite. Il pastore non ha uno scettro perché le sue mani sono sempre impegnate a fasciare le pecore ferite, curare le malate, occuparsi delle grasse e delle forti.

Il pastore conduce tutte al pascolo e, continua il salmo responsoriale, su questi stessi pascoli le fa riposare, le scorta verso acque tranquille, le rinfranca, le guida, le sfama.

Che il nostro Dio sia un re un po’ particolare, ce lo conferma anche la seconda lettura. Un re la cui vittoria passa attraverso una sconfitta, un Dio il cui trionfo passa per una fragilità, un Dio che manifesta la sua grandezza nell’amore e nel perdono, un Dio che si scopre, si svela, consegna la sua stessa vita in un impressionante dono di sé.

Ed è proprio nella logica del dono di sé, il dono che è la vita del pastore per le sue pecore, che il Signore ci chiama a vivere.

Leggiamo nel Vangelo di Matteo che «quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria […] dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”» perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

Cosa ci chiede il Signore? Ci chiede di non chiudere gli occhi davanti a ciò che è impossibile non vedere. E cosa è impossibile non vedere?

È impossibile non vedere l’uomo che siamo e che abbiamo davanti, il fratello in cui ci imbattiamo ogni giorno in casa, ogni volta che usciamo di casa, ogni volta che apriamo la bocca per dire una parola.

Ci chiede di non bypassare gli uomini e non ignorarne le storie…così come il pastore con le sue pecore, ci chiede di cercare, curare, fasciare, dissetare, sfamare, rinfrancare, guidare ogni uomo nella sua fragilità e debolezza.

Perché amare e prendersi cura di chi ci è accanto è amare Dio.

«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me», abbiamo letto poco fa. Ma il Vangelo continua: «…tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». «E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

«…se ne andranno…»: Dio non manda nessuno all’inferno, siamo noi i costruttori della nostra storia e di tutte le conseguenze che questa costruzione porta. Alla fine dei tempi, se così possiamo dire, ci sarà solo la manifestazione chiara di quanto abbiamo fatto o non abbiamo fatto nella nostra vita.

Ciascuno di noi raccoglierà il frutto di quanto ha seminato, qui e ora, liberamente.

Ecco perché quello che questo Vangelo ci vuole dire non è come si svolgerà la fine del mondo, ma che la scelta di come noi viviamo oggi è quella scelta sulla quale si giocherà il nostro futuro…è nell’oggi che noi scegliamo la benedizione o la maledizione, la vita o la morte. Come? Curando o non curando, accompagnando o non accompagnando, amando o non amando…

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