Le conseguenze del Covid-19, “unite al cambiamento climatico, aggravano fame e malnutrizione e potrebbero raddoppiare le persone esposte alla fame e all’indigenza”. E anche se nel mondo sono stati fatti lenti progressi in oltre 50 Paesi rimane acuta. L’Obiettivo “Fame zero” si potrà raggiungere nel 2030 solo “riesaminando i sistemi alimentari in modo equo, sano e rispettoso dell’ambiente”. È quanto emerge dall’Indice globale della fame 2020, realizzato da Welthungerhilfe e Concern worldwide e curato da Cesvi per l’edizione italiana. A livello mondiale la fame è stata in leggero miglioramento rispetto al 2000 ma restano 11 Paesi con “livelli di fame allarmanti” e 40 Paesi che appartengono alla categoria “grave”. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite quasi 690 milioni di persone sono denutrite; 144 milioni di bambini soffrono di arresto della crescita e 47 milioni soffrono di deperimento e 5,3 milioni sono morti prima dei cinque anni nel 2018, in molti casi a causa della malnutrizione. L’edizione 2020 evidenzia il rischio che il secondo Obiettivo di sviluppo sostenibile (Sdg), conosciuto come “Fame zero”, fissato per il 2030, non venga raggiunto: “al ritmo attuale, 37 Paesi non riusciranno nemmeno a raggiungere un livello di fame basso nella scala di gravità”. Le regioni del mondo più colpite sono l’Asia meridionale e l’Africa a sud del Sahara: in entrambe le aree la fame è di livello “grave”, a causa dell’elevata percentuale di persone denutrite (rispettivamente 230 e 255 milioni) e dell’alto tasso di arresto della crescita infantile (1 bambino su 3). L’Africa a sud del Sahara ha il più alto tasso di mortalità infantile al mondo, mentre l’Asia meridionale ha il più alto tasso mondiale di deperimento infantile.

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