DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza in San Benedetto del Tronto.

E’ facile e comodo, per noi, distinguere e dividere in categorie: i buoni e i cattivi, i giusti e i peccatori, i sani e i malati.

Oggi, invece, il Signore ci spiazza perché ci parla di pubblicani e prostitute che hanno le porte del Regno dei cieli spalancate davanti a loro, di credenti che non credono, di giusti che muoiono per il male commesso, di malvagi che vivono per quanto di retto e giusto hanno compiuto.

E ci fa una domanda: «Ascolta, dunque, casa d’Israele, non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?».

Vale a dire: è giustizia la vostra che etichettate l’uomo o è giustizia la mia che guardo l’agire dell’uomo? Non del buono o del cattivo, non del sano o del malato ma dell’uomo?

E per aiutarci a rispondere a questa domanda ci presenta la storia di un padre che manda i suoi due figli a lavorare nella vigna. Il primo «rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò». Il secondo disse: «Sì, signore. Ma non vi andò». Nessuno dei due figli può vantare un’obbedienza perfetta, una piena corrispondenza tra il dire e il fare, tra la parola e la prassi.

E’ come dire: ognuno di noi ha in sé un cuore diviso, un cuore che dice sì e uno che dice no, un cuore che dice e poi si contraddice. Gesù conosce bene come siamo fatti: siamo fatti tanto del primo figlio quanto del secondo, non esiste infatti nel Vangelo il terzo figlio ideale, che vive la perfetta coerenza tra il dire e il fare.

Ma ciò non è determinante, forse non è neppure richiesto.

Quello che Gesù, infatti, guarda, è la nostra capacità di ricrederci, il coraggio di contraddirci, il desiderio di ripensarci, la volontà di leggere i segni dei tempi, la necessità e il bisogno di essere autentici. Un Dio che guarda lo sforzo e non la verità, la sostanza e non l’apparenza, perché il credere passa a volte anche attraverso un ricredersi, uno smentire la propria parola e la propria volontà.

La fede non ci chiede di non sbagliare e di non peccare ma di riconoscere l’errore, di confessare lo sbaglio. Tutto ciò non è segno di debolezza ma di coraggio, di forza, è la decisione di incamminarsi sulla via della responsabilità. E questo non lo facciamo da soli: il salmista chiede ripetutamente al Signore «Fammi conoscere le tue vie…insegnami i tuoi sentieri …guidami …istruiscimi …indica …guida …insegna…».

Riconosce cioè, come siamo anche noi chiamati a riconoscere, che non possiamo camminare da soli ma abbiamo l’urgenza di affidarci ad una Parola che è consolazione, conforto, misericordia.

Non lo avevano fatto i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo di Israele che Gesù accusa di non aver creduto a Giovanni Battista e alla sua predicazione, rimanendo fermi solo sulla loro sterile verità. Sacerdoti e anziani che hanno visto ma non creduto, che non hanno avuto il coraggio di ripensare la propria vita alla luce di quella Parola.

San Paolo scrive che Gesù non ritenne un privilegio l’essere come Dio ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce. Scrive ancora esortandoci ad avere gli stessi sentimenti di questo Gesù. Anche noi allora non riteniamo un privilegio la nostra “etichetta” di bravi cristiani, ma riteniamoci privilegiati per la possibilità che abbiamo ogni giorno, attraverso l’ascolto della Parola, di ripensarci come uomini, come cristiani, non rimanendo ancorati alle nostre piccole verità ma avendo il coraggio di metterle in dubbio per aderire alla Verità più grande che è Cristo.

 

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