Filippo Passantino

“Rosario Livatino ricorda il dovere di amministrare la giustizia come esigenza intrinseca della fede e dell’apostolato cristiano, fino all’ultimo”. Così mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e postulatore della causa di beatificazione, parlando al Sir, indica l’eredità del giudice a latere di Agrigento, nel 30° anniversario dell’uccisione, per mano dell’organizzazione mafiosa della Stidda. Una testimonianza, espressa da Livatino con la sua stessa vita, che ha generato alcune conversioni. Riconosciuto Servo di Dio, a lui si attribuisce anche l’intercessione per una guarigione miracolosa. Adesso, la causa di beatificazione è all’esame della Congregazione vaticana.

Sono trascorsi trent’anni dall’uccisione del giudice Livatino. Che cosa ha generato in questo tempo la sua morte a causa della giustizia?
Il Servo di Dio viene assassinato nella prima mattinata del 21 settembre 1990. L’assassinio fu portato a termine dai membri di un commando di fuoco dotato di armi da guerra, composto da esponenti delle cosiddette Stidde (rami staccatisi da Cosa Nostra), mentre egli, privo – come sempre – di scorta, raggiungeva la sede del Tribunale di Agrigento.

Sacrificatosi per il trionfo della giustizia e dell’idealità della sua fede cristiana, Livatino, con la sua morte tragica, è diventato seme di conversione per alcuni suoi mandanti e assassini, ma soprattutto ha dimostrato che anche in un territorio oppresso da corruzione e mafie è possibile praticare la giustizia e odiare l’iniquità.

Perché Rosario Livatino può essere considerato “martire in odio alla giustizia e alla fede”?
Perché ha saputo armonizzare il servizio alla comunità civile, alla Carta costituzionale e alle leggi con l’obbedienza alla sua coscienza di laico cristiano, alla Chiesa. In sintesi, si può ben dire “Consummatus in brevi explevit tempora multa” (Sap 4,13), grazie all’amore per Gesù Cristo fino al sacrificio della vita. Fu san Giovanni Paolo II, nel corso della sua visita pastorale in Sicilia nel 1993, a usare l’espressione, poco dopo l’incontro, favorito dal vescovo di Agrigento, mons. Carmelo Ferraro (che ben conosceva la testimonianza eroica di Livatino), con i genitori del Servo di Dio. Rosario fu perciò additato dal Papa come “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Una frase testuale che, in seguito, anche Papa Francesco riprenderà e quasi ‘consacrerà’ il 29 novembre 2019.

Da alcuni suoi scritti si legge che giustizia e fede erano inscindibili nel suo servizio alla magistratura…
Nella Positio super martyrio, ora all’esame della Congregazione delle Cause dei Santi, viene mostrato come giustizia e fede siano inscindibili nella teoria e nella prassi di Livatino. I mandanti hanno consapevolmente odiato una persona che professava la fede cristiana come anima del proprio modo di amministrare la giustizia, comprovando così la correlazione tra giustizia e fede, per cui il suo essere giusto non era altro che la traduzione operativa del suo essere credente. Del resto, tra i valori fondamentali della fede cristiana, un posto di primo piano è proprio quello della giustizia, la cui realizzazione concreta è l’adempimento di un preciso dovere. In proposito, San Tommaso d’Aquino afferma che nel martirio cristiano si esige la virtù della fortezza affinché il martire, senza mai abbandonare la fede e la giustizia, sia fermo proprio nell’imminenza del rischio di morte.

Quanto c’è della vita e della storia di Livatino nel “convertitevi!” gridato ai mafiosi da Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi?
Il cardinale di Agrigento, Francesco Montenegro, ricorda che quel grido è da ritenere anche la conseguenza del fatto che il Papa abbia incontrato i genitori di Livatino: ‘Io credo che il Vangelo dia coraggio e richieda coraggio, e il Papa mi si dice che quella mattina abbia incontrato anche i genitori di Livatino, e questo lo scosse tanto; tanto che poi si arrivò al grido del pomeriggio’.

L’ansia di conformarsi a Cristo animava la preghiera di Livatino, anche nei momenti più delicati del suo lavoro di magistrato.

Ad esempio, quando doveva recarsi sui luoghi di un delitto, dove non temeva di manifestare la propria fede e – con fermezza notata da altri tutori della legge – metteva al centro la preghiera di suffragio per una persona deceduta, sia pure delinquente. Chiamato a fare un referto su un cadavere, un ufficiale delle Forze dell’ordine commentò: ‘Era un mafiosetto, ce lo siamo tolti di mezzo’. A queste parole Livatino si girò e pronunciò con fermezza: ‘Di fronte alla morte, chi crede prega, chi non crede tace’.

In quale fase si trova il processo di beatificazione di Rosario Livatino?
Dopo la prima e la seconda inchiesta diocesana sul martirio nella quale fui designato postulatore su designazione del card. Francesco Montenegro, la causa è a buon punto: è all’esame della Congregazione vaticana. Nella Positio sono state vagliate tutte le prove testimoniali (ben 59), documentali, storiche e biografiche, sia cartacee che informatiche, per il riconoscimento del ‘martirio’.

Lei è già stato postulatore nel processo di beatificazione di don Pino Puglisi. Rosario Livatino potrebbe essere il secondo martire ucciso dalla mafia?
Si tratta di due vicende biografiche ed esistenziali diverse, una di un prete che muore col sorriso sulle labbra, l’altra di un laico che domanda ai suoi assassini, quasi con parole profetiche: ‘Che cosa vi ho fatto?’. La vicenda di don Puglisi si è chiusa con il riconoscimento di un martirio; quella di Livatino, come detto, è all’esame della Congregazione delle Cause dei Santi. C’è da confidare nell’operato dello Spirito Santo affinché pur partendo da premesse differenti si possa approdare a un finale identico, segnato dal riconoscimento del sacrificio estremo in coerenza ai principi della fede e del Vangelo.

Qual è il messaggio di Rosario Livatino per la società di oggi e, in particolare, per la magistratura?
Con l’esempio della sua vita e l’esercizio di magistrato, e con i suoi scritti, onora la magistratura ed è molto attuale per i nostri tempi, nei quali corruzioni e pressioni delle mafie non sono cessate, anzi hanno potenziato la loro capacità di pervasività nazionale e internazionale. In un siffatto contesto endemicamente mafioso e cruento, la serenità e la fiducia cristiana del Servo di Dio sono stati presenti fino all’ultimo suo giorno terreno. Egli si è consapevolmente posto esclusivamente sotto la tutela di Dio.

Livatino ricorda il dovere di amministrare la giustizia come esigenza intrinseca della fede e dell’apostolato cristiano, fino all’ultimo.

E ciò, malgrado i pericoli della sua azione requirente e giudicante nell’infuocato territorio in cui aveva deliberatamente voluto operare. Egli ci parla col suo esempio, la sua testimonianza, il suo eroico sacrificio, ma in particolare ai magistrati. E questo esempio vive e palpita ancor oggi.

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