DIOCESI – Pubblichiamo la lettera pastorale della Caritas Diocesana di San Benedetto del Tronto.

Il vangelo racconta che Gesù, in un passaggio difficile per i suoi discepoli, dopo che hanno visto all’orizzonte la croce, si trasfigura: mostra tutta la bellezza e lo splendore della divinità. In questo momento di svolta, è decisivo lo sguardo degli apostoli che contemplano lo svelamento del destino dell’uomo. I nostri tempi registrano tra la gente lo stesso scoraggiamento, fortunatamente le mascherine, che siamo costretti ad indossare, coprono una buona parte del volto, ma lasciano liberi gli occhi. Così anche noi possiamo guardare in modo nuovo la storia che, sebbene racconta sempre di drammi e di morte, nell’ottica cristiana ha come prospettiva la vita, la resurrezione.

Affiora tra i ricordi un’esperienza vissuta tantissimi anni fa. Ebbi l’opportunità di partecipare all’Eucaristia in San Pietro, presieduta da papa Paolo VI, che morì, non molto tempo dopo, proprio il giorno della trasfigurazione del Signore. Nell’accostarmi per  la comunione, rimasi particolarmente colpito dal suo sguardo profondo e dai suoi occhi vivaci, incastonati dentro un corpo ormai provato e affaticato. In fondo, anche la pandemia ha contribuito ad indebolire e mettere a dura prova il corpo ecclesiale, così come quello sociale, ma ci rimane la possibilità di scorgere ancora tanta bellezza per poter ricominciare. Basta pensare al bene che sembrava scomparso ed invece è riemerso nella generosità di molti che hanno condiviso risorse e tempo; negli innumerevoli ‘collegamenti’ attraverso i social per contattare e sostenere familiari ed amici; nei tempi prolungati di ascolto, di confronto e di preghiera vissuti in famiglia.

Ora c’è bisogno davvero di una ‘trasfigurazione’! Cosa fare?

Paolo De Benedetti, teologo e biblista, nel libro intitolato “Ciò che tarda avverrà” (Qiqaion 1992) racconta la storia di una bara che uscì da Gerusalemme. Nella bara c’era Jochanan ben Zakkaj, il rabbi che nel 68 d. C., consapevole dell’ineludibile destino della città e del tempio, incendiati e distrutti due anni dopo, si finse morto per poter uscire da Gerusalemme assediata,portando con sè solo la Torah, il rotolo della Parola di Dio. Vespasiano faceva uscire solo i morti per timore dei contagi.Più tardi il rabbi ottenne che il modesto sinedrio di Javne, l’attuale Tel Aviv, fosse risparmiato, e lì rifondò il giudaismo come il popolo della Torah: un popolo senza terra, senza re, senza tempio, ma fondato sulla Parola. La grandezza di Jochanan ben Zakkaj sta nell’aver individuato quello che si poteva mantenere e quello che si doveva abbandonare per conservare il tutto.

Oggi più che mai, anche noi siamo chiamati a discernere i segni dei tempi, a cogliere quale appello dello Spirito ci viene rivolto, cosa è bene conservare e cosa va tralasciato.Dobbiamo portare in salvo l’unica cosa che conta nella vita, l’unica cosa che alla fine rimane: l’amore! Senza l’incarnarsi di questa parola è difficile immaginare un futuro diverso!

All’uomo, ridotto da troppo tempo a spettatore e consumatore, occorre far subentrare l’uomo in relazione, capace di prossimità. Afferma Piergangelo Sequeri : “non chi sono, ma per chi sono è l’essenza della mia identità! La stessa Chiesa, ed in essa la Caritas, non è un’organizzazione ma un insieme di relazioni. Purtroppo a volte si ha la sensazione che le cose da fare prevalgano sulla cura della fraternità. Per questo,terminata l’emergenza,si tratterà non di riprendere  tutto come prima, ma di aprirsi al nuovo, di avviare processi,di imparare a camminare insieme verso obiettivi comuni. Sarà necessario ripensare tutta la pastorale, ed in particolare quella della carità. Il vescovo Derio Olivero,nel libro “Non è una parentesi. Una rete di compici per assetati di verità” (Effatà editrice), propone di imparare a ragionare “a fondo perduto” e “a lungo termine”, aprendoci senza troppe paure alla categoria della novità.

Non sarà la logica dello scambio a muovere il mondo, ma quella del dono e della gratuità. Ed allora a nulla serve girare pensierosi dentro le chiese semivuote, escogitando qualche modo per poterla riempire. Piuttosto occorrerà ‘uscire’, non per andare a recuperare chi consideriamo persi o dannati, bensì per essere lì dove è la Chiesa: nelle case dove le famiglie vivono la preghiera domestica, nel mondo della cultura e della politica, della scienza e dell’economia dove si tenta di costruire una “società altra”, nelle periferie umane in mezzo ad un’umanità sfigurata dal dolore e dall’emarginazione dove si cerca possibilità di cambiamento. Accanto a loro  torneremo a guardare il Signore ‘trasfigurato’ e si farà breccia la fiducia e la speranza che da un mondo che muore, potrà nascere il  nuovo che fa dire: “è bello per noi essere qui” (Mt 17,2)

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