DIOCESI – Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli“: così scriveva Cesare Pavese nel suo romanzo La casa in Collina. Oggi, in tempi di coronavirus, queste parole assumono un significato terribile, perché chi si ammala e perde la vita, muore da solo per davvero.

Negli ultimi due mesi la nostra rivista ha incontrato numerosi medici che svolgono la loro professione in strutture ospedaliere italiane ed europee e tutti i loro racconti hanno purtroppo un denominatore comune: l’isolamento del malato e quindi l’impossibilità di incontrare i familiari più stretti o un amico, anche quando il paziente sa che purtroppo la sua vita terrena sta per terminare. Qualche medico pietoso concede al paziente una videochiamata prima di essere intubato, ma nulla può sostituire il calore di un abbraccio.

Questa condizione di solitudine purtroppo non riguarda solo i pazienti contagiati da covid-19: chiunque entri in una struttura ospedaliera per un problema di salute, deve prima sottoporsi al tampone ed, in attesa del suo risultato, viene messo in isolamento. Spesso, però, l’esito del tampone arriva troppo tardi, quando il paziente non è più in vita.

Pertanto, oltre ai morti per coronavirus, in questi mesi ci sono stati anche i morti con e durante il coronavirus: per tutti loro la morte è avvenuta in solitudine, senza il conforto del coniuge o dei figli, senza un abbraccio o una stretta di mano, senza una parola di commiato. Nella maggior parte dei casi poi non è stato possibile per i familiari neanche sistemare la salma personalmente, magari vestendo il loro congiunto con alcuni specifici abiti o inserendo nella bara oggetti a lui cari: il corpo del deceduto è stato avvolto in un lenzuolo bianco ed il feretro è stato riconsegnato ai familiari solo dopo la sua chiusura in sicurezza. In questa maniera, il distacco, che già di per sè rappresenta un momento di sofferenza, è stato ancora più doloroso ed ha lasciato i familiari attoniti ed impotenti, amareggiati per non aver potuto fare di più, afflitti per non aver potuto dato almeno un ultimo saluto. Per nessuno è stato possibile celebrare il funerale in Chiesa; si è proceduto a svolgere il rito funebre direttamente al cimitero in presenza di massimo cinque congiunti per evitare assembramenti.

Abbiamo chiesto al nostro Vescovo, Carlo Bresciani, di aiutarci a comprendere come può porsi il cristiano di fronte ad una morte così.

Eccellenza, molte persone hanno perso familiari ed amici in questo periodo, ma non hanno avuto neanche un corpo su cui piangere né hanno potuto dare loro un ultimo saluto. Come possono non sentirsi in colpa e trovare consolazione per questo?
“Penso che quella di sentirsi in colpa sia una tentazione, un tranello, ma – se ci pensiamo bene – non può essere una colpa non aver fatto quello che era impossibile fare. La perdita di una persona cara, di un familiare, di una persona a cui si è legati da affetto, certamente è una dura prova. E lo è sempre, in ogni situazione. Certo, in questo periodo è stato ancora più doloroso, perché non si è potuto accompagnare – come si sarebbe voluto – il proprio caro defunto all’ultima sepoltura; ma assolutamente non dobbiamo sentirci in colpa, anzi dobbiamo curare l’aspetto della preghiera, della comunione spirituale, perché non dobbiamo dimenticare che ha comunque un alto valore il suffragio attraverso la preghiera, in attesa di poter celebrare il funerale in maniera più piena e comunitariamente. Pertanto, è comprensibile che noi sentiamo il bisogno di stare vicino ai nostri defunti, ma loro sicuramente non si sono sentiti abbandonati, se la nostra preghiera ha continuato ad accompagnarli.”

Il funerale è un momento importante per noi cristiani. Come si può ovviare ad una mancanza del genere? In che maniera, da casa, si può affidare a Dio l’anima del defunto? E come si può manifestare la propria vicinanza e solidarietà ai familiari che hanno perso una persona cara?
“In questo periodo il funerale comunque è stato celebrato nel senso che ogni sacerdote ha accompagnato al cimitero i defunti ed ha benedetto la sepoltura dei nostri cari. Non abbiamo potuto portare i feretri in Chiesa e celebrare la santa Messa, ma c’è una frase che Gesù dice e di cui dobbiamo fare tesoro in questo periodo: Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro. Allora, quando a casa si ricordano i propri defunti, quando insieme in famiglia si prega per i propri defunti, lì Gesù è presente e quella preghiera ha un grandissimo valore di suffragio. La comunità che prega, sia pure sparsa e quindi che non può riunirsi in Chiesa, è comunque un gesto di suffragio molto importante. Quello che intendo dire è questo: quando non possiamo compiere alcuni gesti a cui magari siamo più abituati e che sono molto belli e positivi, non dimentichiamo che ne abbiamo degli altri, che hanno comunque un valore spirituale, che hanno un valore presso Dio. Facciamo tesoro di questi gesti, in attesa di avere la pienezza anche della preghiera comunitaria.”

Il Nuovo Decreto prevede finalmente che si possano celebrare i funerali, meglio se all’aperto, e con un massimo di quindici congiunti. Si tratta di un passo avanti verso una riapertura totale oppure resta un impedimento importante alla nostra libertà di culto?
“Queste norme che ci vengono date e che certamente sono pesanti e difficili per tutti – non solo questa, ma anche tutte le altre – hanno un grande significato: cercare di proteggere al massimo la salute di ciascuno di noi. Perciò, siccome il virus cammina con le nostre gambe, cioè siamo noi che portiamo in giro il virus, dobbiamo evitare di essere noi, i diffusori – magari inconsapevoli e senza nessuna colpa – di questo virus. La limitazione certamente ci pesa, ma credo che sia un primo passo verso la sconfitta d questo virus. Io spero intensamente che, diminuendo la diffusione del virus e quindi il contagio, possiamo tornare nuovamente ad una vita comunitaria, se non piena come quella di prima, almeno maggiore e più consistente di quella attuale. In questo momento la preoccupazione maggiore di tutti, anche per noi cristiani, deve essere quella di non farci del male reciprocamente. Se io porto in giro il virus e contagio un’altra persona, anche se inconsapevolmente, sto facendo del male. Dobbiamo fare tutto il possibile affinchè questo non avvenga. Credo che questo sia il senso di queste limitazioni: se noi le accettiamo con questo significato e con spirito di carità, è un sacrificio che ha un valore presso Dio.”

 

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