Di Pietro Pompei

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – A cercare le ragioni, perché una chiesetta rurale, come quella di Santa Lucia, susciti tanto interesse nella nostra città, occorre ritornare alle nostre radici e non fermarsi solo a reperti e documenti, ma attingere anche ad una tradizione fatta di usi e costumi, frutto, spesso,  di un’interazione con il proprio habitat. Non tutti sanno che nella nostra storia due sono i luoghi a cui attingere per cercare i primi insediamenti di una certa consistenza sul nostro territorio: il promontorio del Paese Alto e le terre che dal fosso delle Fornaci vanno verso monte Aquilino. Il primo si prestava meglio alla difesa, specialmente dopo che i Gualtieri lo circondarono di mura, ma quando l’accanirsi delle pestilenze rese invivibile il Castello di San Benedetto si pensò di abbandonarlo e di trasferire la propria residenza nel “terreno territorii Castri diruti Montis Aquilini et alia  terrena in dicto loco”; come si può leggere a pag. 467 del Firmana Concessionum alla data del 28 agosto 1574. E nonostante il permesso ottenuto dal papa Innocenzo VIII non se ne fece nulla, facilmente per la gravosità dell’impresa. Il Castello di Monte Aquilino era stato un insediamento longobardo.

Che quelle terre fossero densamente popolate, ne furono sempre più convinti i nostri studiosi di storia del secolo passato, specialmente dopo la scoperta di una “necropoli” che venne datata intorno al III, II secolo d.C. In particolare il Palestini Francesco. che vide, anche nel nome della Santa, un prosieguo dell’antica Alba, da cui l’antico nome del nostro più importante torrente, l’Albula, ad arricchire gli antichi relitti di mare con le sue alluvioni, sui quali hanno prosperato la nostra città marinara e le nostri invidiabili spiagge.

Il 2 Aprile del  1991, il lunedì dell’Angelo, alla presenza di una folla che neppure la piazzetta antistante la chiesetta, riuscì a contenere, tra la commozione generale, fu riaperta al pubblico la Chiesetta di Santa Lucia. Ebbi allora a scrivere: “Mentre i colombi si libravano in libertà e i palloncini colorati si innalzavano portatori di un messaggio di gioia e di pace, mi son tornati in mente i nostri maggiori studiosi di storia: Liburdi, Guidotti, Palestini e i loro appassionati scritti, perché S.Lucia non fosse definitivamente inghiottita dall’indifferenza e dal cemento. Essi avevano compreso l’importanza storica di questi luoghi e i nuovi documenti pubblicati e le continue ricerche, stavano a testimoniare la giustezza delle loro intuizioni”. Facevo riferimento, in particolare, ad una pubblicazione, apparsa qualche mese prima, a cura di Emilio Tassi e Umberto Poliandri dal titolo “Documenti di vita religiosa nel castello di San Benedetto, secc. XV-XVI”. Poiché in questi “Documenti”  si parla anche di una chiesa di S.Stefano di Monte Aquilino, si pose il problema se le chiese di S.Stefano e S. Lucia dovevano intendersi due o una. “Infatti, mentre nel Registro: Collazioni 1-B-2  e  216 anno 1416 si parla della prepositura della chiesa di S.Stefano di Monte Aquilino; nel Registro: Collazioni 1-B-3 anno 1434 si dice “…prevosto della Chiesa di S.Lucia e S.Stefano di Monte Aquilino”. In un documento del 1573 si parla solo della chiesa rurale di S.Lucia e dello stato di abbandono in cui versava. È certo che in quegli anni tra il territorio di Monte Aquilino e la zona di S.Lucia ci fosse una interdipendenza, mentre in tempi più recenti, questi territori furono perfettamente separati. Monte Aquilino andò sotto il Comune di Fermo e nel periodo feudale sotto quel Vescovo, mentre S.Lucia appartenne al Vaticano come patrimonio di S.Pietro, poi passato alla Basilica di S.Giovanni in Laterano. Sappiamo per certo che verso la metà del ‘700 i beni parrocchiali della vecchia chiesa di S.Lucia “al sommo del Fosso delle Fornaci” erano stati dati in affitto a Bernardino di Domenico Voltattorni

Scrive il Liburdi: “ Fin dall’inizio della sua affittanza (Bernardino Voltattorni), la chiesetta era assai fatiscente per secoli di vecchiaia e perché posta in luogo di pericoloso accesso e prossimo a franare nel profondo del Fosso delle Fornaci e per questo frequentato da pochi fedeli. Tali motivi rendevano prossima la sconsacrazione della Chiesa dopo una dolorosa visita dell’Ordinario Diocesano qualora non si fosse provveduto subito a ripararla. Bernardino Voltattorni si prese l’impegno di abbattere il Tempietto e di ricostruirlo a sue spese in luogo migliore non lontano: gli fu concesso: e questo egli fece nel punto dove noi al presente lo vediamo. Del  suo lavoro lasciò egli memoria in una lapide  messa tra lo stemma papale e il lateranense riportati nella nuova facciata della Chiesetta a perpetua memoria dei passaggi di proprietà ed in quella targa può dunque leggersi: “Bernardinu Voltaturno Sanct.Lucie Erexit Ex. Rog. Giuchini Sub Die 18 8bris 1776”.

Vicino fu costruita la casa per l’abitazione del Sacerdote officiante e fu sicuramente occupata da uno dei figli di Bernardino, don Domenico.

Nell’abbandono in cui la chiesetta di S.Lucia è stata lasciata per decenni, molte cose sono state portate via. Il  Liburdi parla di un “Acquasantiera: “forse fu lì trasportata  dal Voltattorni dalla vecchia S.Lucia, insieme ad altre cose della Chiesa, all’epoca della costruzione”. Ed aggiunge: “Se fosse vera l’intuizione dello studioso Francesco Palestini, avrebbe dovuto trattarsi di un antico macinatoio reperito in qualche scavo di tombe preistoriche, che spesso si rinvengono, dei primitivi abitatori che già, dalla marina, si spostavano verso le valli che risalgono verso il monte per fondarvi, poi, i paesi di Acquaviva e Monteprandone”.

Due erano i momenti dell’anno aggregativi della nostra Comunità Sambenedettese, presso la Chiesetta di S.Lucia: la Fiera del 13 Dicembre e la scampagnata del pomeriggio del giorno di Pasqua. Della Fiera ne parla ampiamente il Guidotti nel libro, vol I,  edito dal Circolo dei Sambenedettesi.

Nel 1861 la fiera di S.Lucia fu acquisita dagli Amministratori del tempo e trasferita presso la vecchia Chiesa della Madonna della Marina e il vecchio Municipio, cioè sulla Piazza del Mercato, come era denominata l’attuale piazza Cesare Battisti.

Sulla scampagnata pasquale ci hanno lasciato notizie Ernesto Spina e Filippo Miritello, trattando degli “usi e costumi” della nostra gente. Dell’allegria della ricorrenza si fece interprete un nostro, purtroppo dimenticato, poeta, Benedetto Lagalla, professore insigne, autore del “ Le Stagioni di San Benedetto del Tronto”, Tip.Menicucci-Firenze  1932-  Primavera pag.15”.

 

“                              …Poco lungi dal

Borgo e al mare, sovra colle ameno

E di dolce declivio, sorge un umile

Tempietto sacro alla Siracusana

Vergine Santa. Quivi, il pomeriggio

Del di che del risorto Redentore

Si celebra la festa, in frotta muovono

I paesani a venerar la Santa,

Ma più, o mondo! mondo! A darsi giolito.

È questa l’ora a conoscer propizia

Le femminili beltà ond’è ricca

Questa terra…

                         Giunti, adunque,

I borghigiani al loco della festa,

Si spargono pel colle e a gruppi siedono,

A merendare, sovra il verde prato

Fragrante di viole e margherite…”

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

2 commenti

  • tiberio
    16/04/2020 alle 20:58

    Dove si troverebbe questa necropoli del II e III secolo? Non ho mai sentito parlare di scavi archeologici in quelle zone. Grazie comunque per l' interessante ricerca.

    • Simone Incicco
      17/04/2020 alle 15:01

      Si trova lungo la strada che porta all’Abbadetta, verso Acquaviva a circa metà strada, partendo dal semaforo che si trova sulla nazionale. A sinistra è facile individuare un cimitero.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *