Gianni Borsa

Una Pasqua “a porte chiuse”: la gente rintanata in casa per rispettare le giuste norme precauzionali ed evitare nuovi contagi. Le messe “a porte chiuse”, in streaming, per la stessa ragione. Eppure Gesù risorto entrerà nei cuori, nelle case, portando pace e speranza. Un dialogo con mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano e presidente della Conferenza episcopale lombarda, aiuta a leggere questa difficile fase storica, segnata dal Covid-19. Proprio Milano e la Lombardia sono al centro della pandemia mentre la Chiesa ambrosiana, assieme a quella universale, si prepara a vivere il Triduo con modalità inedite.

Eccellenza, anzitutto un suo sguardo su questa vicenda che tutti stiamo vivendo con apprensione. Cosa lascia questa pandemia nel suo cuore di vescovo e pastore?
C’è, da un lato, un senso di smarrimento e di impotenza, per le tante persone che soffrono, perché donne e uomini spariscono nelle statistiche, nei numeri e nelle percentuali che vengono proposte ogni giorno. Emerge ugualmente un senso di tristezza profonda pensando, assieme ai nostri preti, all’impossibilità di raggiungere i malati, di non poter celebrare i funerali, di non riuscire a stare accanto alle famiglie. E poi sia ha l’impressione di essere travolti da una specie di alluvione di parole: una parte delle quali sono utili per conoscere e interpretare questa fase che stiamo vivendo, nella sua complessità.Ma io sento anche l’esigenza di un po’ più di silenzio, di riflessione, di un maggior senso delle proporzioni. Mi sembra che il mondo sia più grande del coronavirus, che ci sono tragedie planetarie altrettanto o più gravi.È naturale che ci si concentri su ciò che fa male a noi piuttosto che considerare quello che fa male agli altri: però questo non mi sembra tanto cristiano.

Di fronte alla virulenza dell’epidemia, a tante bare portate via senza un corteo funebre, qual è il suo pensiero? Cosa dobbiamo lasciarci alle spalle e cosa non dimenticare?
Credo che il pensiero che ci deve accompagnare sia la pratica della speranza, la speranza della vita eterna. Questo ci permette di vivere con verità e con realismo quello che succede. Al contempo sentiamo forte il dolore, la pena di non poter celebrare le esequie di chi ci lascia, i nostri cari, gli amici… Ma i cristiani conservano piena fiducia, nella certezza della comunione dei santi. La stessa morte si relativizza rispetto alla vittoria del Signore sulla morte.

Milano e la Lombardia, per tanti aspetti ritenute tra i motori d’Italia, si trovano al centro dell’epidemia da coronavirus. Nel dramma, affrontato con grande coraggio e un diffuso senso di responsabilità, risuona ogni giorno la voce del Papa, quella del vescovo di Milano assieme a quella degli altri vescovi lombardi, per sostenere la popolazione, offrendo chiavi di lettura in questo tempo surreale, portando parole di speranza. È questo il ruolo che la Chiesa può anzitutto svolgere oggi?
Vedo una concentrazione mediatica sul Papa, sui vescovi, ma la Chiesa – lo sappiamo – è più dei pastori. La Chiesa è fatta da tutti coloro che oggi soffrono o muoiono; di chi è impegnato a curare e a servire i malati. È fatta dal popolo di Dio: da coloro che provvedono ai generi di prima necessità, dagli insegnanti impegnati a far scuola a distanza, dai genitori che si spendono per custodire e far crescere i loro figli in queste condizioni. Tutto ciò è Chiesa. Si tratta di vivere ogni giornata con spirito cristiano, correndo in soccorso di chi ci sta accanto, con maggior fede, testimoniando quella speranza di cui abbiamo bisogno.

L’emergenza si sta dimostrando non solo sanitaria, ma pure economica, sociale, relazionale. Tanta gente cerca e invoca un sostegno spirituale. Diversi suoi interventi hanno incoraggiato alla preghiera, alla solidarietà verso chi è più fragile. In quale misura la Parola di Dio e la fede possono aiutare ad affrontare giorni inesplicabili e a preparare il ritorno alla attesa “normalità”?
Nella visione di fede è la Parola che ci interpella. Dobbiamo avere uno sguardo più limpido, più semplice, per riconoscere che Dio è all’opera. È Lui che ci parla, che ci dona lo Spirito, e questo Spirito Santo dentro di noi ci permette di vivere questa tribolazione con lo “stile” di Gesù.Proprio in questa settimana ci prepariamo a seguire Gesù sulla via della croce fino alla resurrezione. Comprendiamo così che è Dio che agisce nella storia.Questa disponibilità all’opera di Dio è troppe volte dimenticata, con il rischio che ci sentiamo noi stessi chiamati a salvare il mondo. Il cristiano deve fare la sua parte ma sa che è Gesù che ci salva, servendosi della docilità e della collaborazione dell’umanità.

Le diocesi e le parrocchie stanno sperimentando nuovi strumenti e linguaggi per vivere l’esperienza di fede. A questo proposito si rivela prezioso lo strumento internet: basterebbe pensare alle messe in streaming, alle videocatechesi e altre proposte simili. Sta nascendo una pastorale digitale?
Sull’utilità di questi strumenti non ci sarebbe niente da dire. Quello che io avverto è che semmai la pastorale e la liturgia hanno come scopo la convocazione della comunità. Gli strumenti digitali non sono dunque un’alternativa alla vita della comunità, all’assemblea convocata per la messa, nella propria chiesa, ad ascoltare la Parola, a pregare, cantare, spezzare insieme il Pane. In questa Settimana Santa, che vivremo anche con l’ausilio della tecnologia digitale, sentiremo che ci manca il cuore della celebrazione perché manca l’assemblea dei cristiani, ci mancano il Pane e il Vino… I nuovi strumenti sono dunque importanti, eppure sono un po’ come il suono delle campane, che è molto suggestivo, ma da solo non basta per poter affermare “ho partecipato alla messa”. Lo stesso si può dire per la messa assistita alla televisione: è una specie di “surrogato”. Non potendo fare diversamente va bene anche questa, benché non si possa considerare una forma liturgica e pastorale completa in se stessa.

Una crisi come questa rischia di pesare maggiormente su chi già si trovava in condizioni di povertà materiale, di solitudine, di emarginazione. Caritas Ambrosiana, radicata in tutto il territorio diocesano, e altre iniziative concrete provenienti dalle parrocchie, dalla società civile, dalle istituzioni pubbliche si stanno rivelando preziosissime. Il “farsi prossimo” si conferma un tratto indispensabile per la vita del cristiano e per le nostre società moderne?
“Farsi prossimo” mi sembra l’espressione più adatta, perché non si tratta solo di fare delle cose. Ci sono tante iniziative sul territorio: la Caritas in particolare fa sì che possa arrivare qualcosa da mangiare a chi non ha in tasca un soldo; il Fondo San Giuseppe è orientato ad aiutare chi perde il lavoro, venendo meno il reddito necessario alla famiglia. Però tutto questo non esaurisce il concetto della carità cristiana, la quale richiede di stabilire delle relazioni forti tra le persone.Il modo fondamentale per aiutare – oltre ad assicurare che non manchi l’essenziale – è che nessuno sia lasciato solo, ognuno possa sentire di appartenere a una comunità nella quale ci si prende cura gli uni degli altri.In tal senso il farsi prossimo è irrinunciabile. Gesù nel vangelo dice “i poveri li avrete sempre con voi”: non è solo un richiamo alla carità, ci dice “dovete far sì che i poveri siano con voi”. Occorre sviluppare un senso di comunità che comprenda i più svantaggiati. E dobbiamo immaginare che se la situazione economica e sociale diventasse più critica, chi già soffre, soffrirà di più. A costoro andrà necessariamente un’attenzione speciale.

Le chiediamo, infine, un augurio per la Settimana Santa.
L’augurio che vorrei fare si ispira alla pagina del vangelo di Giovanni che racconta del “primo giorno dopo il sabato”, quando si dice che “erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei”: Gesù entrò e si “pose in mezzo a loro”. Penso che si possa definire così questa “Pasqua a porte chiuse”. Tuttavia ciò non impedisce che sia Pasqua e, nonostante le porte chiuse, entri il Signore Gesù, Cristo risorto, riempiendo la casa di gioia e di speranza. Questo è il mio augurio per tutti.

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