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Rohingya: Amnesty, “si minimizzano i crimini commessi ma la crisi in Myanmar è ancora in corso”

“Aung San Suu Kyi ha cercato di minimizzare la gravità dei crimini commessi ai danni della popolazione Rohingya.
Non li ha neanche menzionati, né ha riconosciuto la dimensione di quei crimini. Questo tentativo di negare è deliberato, ingannevole e pericoloso”.
Lo afferma il direttore regionale per l’Asia di Amnesty International, Nicolas Bequelin, commentando le dichiarazioni fatte oggi da Aung San Suu Kyi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. La denuncia all’Aja è stata presentata l’11 novembre 2019 dal Gambia, che ha chiesto alla Corte, in attesa della sua pronuncia, di ordinare al Myanmar di adottare “misure provvisorie per proteggere i diritti del gruppo Rohingya e impedire ogni azione che possa equivalere o contribuire al reato di genocidio”. “L’esodo di oltre 700.000 Rohingya che vivevano in Myanmar – prosegue Bequelin – non è stato altro che l’effetto di una campagna orchestrata di uccisioni, stupri e terrore. Dire che i soldati ‘non distinguevano chiaramente tra combattenti armati e popolazione civile’ sfida ogni logica. Così come è pura fantasia la tesi secondo la quale le autorità di Myanmar sono in grado di svolgere indagini immediate e indipendenti e sottoporre a processo i presunti autori di crimini di diritto internazionale, soprattutto per quanto riguarda gli alti ufficiali delle forze armate che godono da decenni di una totale impunità”. Amnesty ricorda “600.000 persone si trovano ancora in Myanmar, a rischio di subire ulteriori crimini e urgentemente bisognose di protezione” e “centinaia di migliaia di rifugiati non possono tornare nel loro Paese”. “Nonostante quanto abbia detto oggi Aung San Suu Kyi – sottolinea -, Myanmar non è affatto un luogo sicuro”. L’invito alla Corte e alla comunità internazionale è ad “agire sollecitamente per proteggere i Rohingya e impedire ulteriori atrocità, ad esempio ordinando al governo di Myanmar di abolire le limitazioni discriminatorie nei loro confronti, assicurare l’accesso agli aiuti umanitari e cooperare pienamente a ogni indagine internazionale”. Le ricerche di Amnesty hanno individuato 13 alti ufficiali dell’esercito di Myanmar, compreso il comandante in capo, il generale Min Aung Hlaing, su cui si dovrebbero aprire procedimenti giudiziari per i crimini commessi contro i Rohingya.