di Patrizia Caiffa

Non basta la professione. Ci vuole anche la vocazione e un’instancabile e coraggioso amore per la ricerca della verità. Dicendo no ad approssimazioni e manipolazioni. E’ questo il refrain che ha fatto da sfondo al dibattito tra due grandi testimoni della lotta alla mafie: don Luigi Ciotti, fondatore di Libera Associazioni Nomi e Numeri contro le mafie e Federica Angeli, giornalista di La Repubblica, costretta a vivere sotto scorta per le minacce ricevute a seguito delle sue inchieste sulla criminalità ad Ostia. Ne hanno parlato ieri sera a Roma nel panel “Notizie sotto scorta. Il ruolo del giornalismo nella battaglia contro le mafie”, durante l’incontro su “Informazione e mafie” promosso dall’associazione Amici di Roberto Morrione, Libera Informazione, da Libera Roma, Articolo 21, Federazione Nazionale della Stampa Italiana, UsigRai, Ordine dei giornalisti, con il patrocinio della Regione Lazio. Hanno fatto da sfondo le notizie di questi giorni da Malta, con migliaia di persone scese in piazza per chiedere le dimissioni del premier Joseph Muscat, dopo l’arresto dell’imprenditore Yorgen Fenech, sospettato di essere stato il mandante dell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, uccisa con un’autobomba nel 2017.

No a giochi di potere e di interesse. “L’informazione è uno dei pilastri della democrazia del nostro Paese – ha esordito don Luigi Ciotti -. C’è una funzione sociale e civile del giornalismo che racconta i fatti, al servizio della collettività”. Ma per svolgere bene questa professione, “senza cronache monche o pilotate”, è necessario “essere persone attente e credibili, cercatori di verità, prendendo le distanze da giochi di potere e di interesse”.

“Abbiamo bisogno di una informazione seria e attenta. Nessuno manipoli la verità”.

Come vive un giornalista sotto scorta? La vocazione nel giornalismo, ha confermato Federica Angeli, è però “un requisito che è andato via via perdendosi, addormentandosi” perché “siamo sommersi da un flusso di notizie e comunicati stampa”: “Questo ci penalizza dal punto di vista degli approfondimenti che invece si possono ricavare da ogni storia”. La giornalista, madre di tre figli, vive sotto scorta da sei anni e questo le impedisce la libertà che aveva prima di condurre inchieste anche pericolose e scottanti. “Prima mi infiltravo negli ambienti delle armi, dei combattimenti clandestini di pitbull – ha raccontato -. Allora ero libera di respirare la realtà, di cogliere ogni gesto e segnale di comunicazione non verbale. Ora non posso più farlo e mi manca molto. Però, anche se mi hanno spezzato un po’ le ali, riesco a fare altro, con la stessa determinazione e passione”. L’immagine che usa rende bene l’idea: “E’ come fare un lavoro con il freno a mano”.

Oggi le mafie sono più flessibili e internazionali. I due, sollecitati dal giornalista Lorenzo Frigerio, di Libera informazione, hanno descritto come sono cambiate le mafie in questi anni, sempre più in colletti bianchi, sempre più estese a livello territoriale e internazionale. “Le nostre mafie pagano consulenti che si prestano ad azioni illecite nell’alta finanza, nel riciclaggio di denaro – ha spiegato don Ciotti -. Restano nel territorio ma annusano affari nuovi all’estero restando sempre sotto traccia. Sono diventate più flessibili, reticolari, molto imprenditrici. Oggi dobbiamo avere uno sguardo più ampio, perché le nostre mafie le troviamo ovunque in Europa”. Don Ciotti conosce bene anche la famiglia di Daphne Caruana Galizia, è stato a Malta. Le proteste di questi giorni in seguito alla scoperta del mandante dell’omicidio, ha commentato, “sono segnali importanti”.

Esiste a Roma una mafia autoctona? Ne è convinta Federica Angeli, anche se “c’è chi non ci crede”. “Non è come la ndrangheta – ha spiegato – ma il primo regalo che si può fare alla mafia romana, anche come giornalisti, è dire che non esiste.

Infatti non ha un nome sui giornali”. Angeli ha spiegato nei particolari i comportamenti di note famiglie e personaggi coinvolti in processi che hanno avuto spesso esiti controversi. Come l’ultima sentenza della Cassazione su Mafia Capitale, che non ha condannato Buzzi e Carminati per il reato di associazione mafiosa. “Ma oggi le mafie si comportano diversamente, non sempre bruciano i  negozi, picchiano o minacciano. Ai due bastava promettere soldi al telefono”, ha detto Angeli. A suo parere “l’opinione pubblica ha il dovere di staccarsi dalla sacralità del timbro della magistratura. Non per togliere autorevolezza ai magistrati, al contrario: perché se quel reato non rientra nei parametri del codice penale non si può fare”. Dal punto di vista del giornalismo, ha concluso, “vincere non è ottenere una sentenza di condanna come pensavamo ma lasciare un segno nelle coscienze. I cittadini di Ostia hanno capito che ero accanto a loro, tant’è che non vanno più a comprare nei negozi gestiti dal malaffare”. “Conta quel ‘noi’, finalizzato a dire: ‘Queste persone non sono invincibili’”.

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