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In memoria di Don Raffaele Mazzoli, una vita a servizio della Chiesa

MARCHE – Don Raffaele Mazzoli, classe 1923, è stato il primo direttore de “Il Nuovo Amico”, settimanale delle diocesi di Pasaro, Urbino e Fano che aveva fondato nel 1972 su incarico del Vescovo monsignor Gaetano Michetti e che ha diretto fino alla fine del 2017.  Don Raffaele è morto pochi giorni fa all’età di 95 anni.
Nel suo lungo servizio sacerdotale aveva ricoperto numerosi incarichi tra cui parroco della parrocchia di Santa Maria delle Fabbrecce prima e di S. Cassiano in Granarola poi, rettore della Chiesa de Nome di Dio, responsabile della mensa diocesana Oda e della casa per ferie “Villa Bacchiani” a Pozza di Fassa.
Era stato inoltre cappellano al carcere minorile di Pesaro e insegnante all’istituto Agrario “Cecchi”. Aveva fondato il cineforum di Pesaro, direttore dei Beni culturali dell’Arcidiocesi curando in
questa veste numerose ed importanti mostre civiche. Negli anni Sessanta era stato corrispondente per l’Avvenire d’Italia.

Unendoci al dolore della famiglia per la morte di Don Raffaele, vi proponiamo l’ultima intervista a lui realizzata dal nostro giornale.

Don Mazzoli, come è nata la tua vocazione?
Sono nato a Pretigliano, figlio di contadini. La mia famiglia era molto povera: mia madre, rimasta vedova a 20 anni con due figli, lavorava come bracciante e si ritrasferì con noi nel suo paese di origine, Sant’Angelo in Lizzola.
Ricordo che io andavo benino a scuola: ero entrato nella simpatia del maestro Tacconi e dell’allora parroco don Agostino Nardella. Entrambi, infatti, premevano per farmi studiare e così decisero, nel 1936, di permettermi gli studi nel seminario di Pesaro.
Iniziò tutto così, molto semplicemente, grazie al maestro che voleva farmi studiare e al mio parroco che mi diede la possibilità di farlo.

Come hai vissuto gli anni del seminario?
Ho frequentato il ginnasio a Pesaro, il liceo classico e i quattro anni di Teologia nel seminario Pontificio di Fano. Li ho vissuti bene, in modo spensierato almeno fino al ginnasio, con l’idea di seguire il percorso che avevo intrapreso e che mi era stato indicato. A Fano, invece, ho affrontato il problema vocazionale: la famiglia o il sacerdozio? Quegli anni sono stati poi quelli decisivi e risolutivi per la strada del sacerdozio.
Il primo anno fu fatto in diocesi ma poi, per via della guerra, siamo stati sfollati a Tavullia. In tutto eravamo 12 classi.
Poi, il 29 dicembre del 1946 ci fu la mia ordinazione in Cattedrale per opera del Vescovo Mons. Buonaventura Porta di Pesaro mentre il 31 dicembre celebrai la mia prima Santa Messa solenne a Sant’Angelo in Lizzoro.
Non è facile esprimere le molteplici emozioni provate in quei giorni e in quei momenti, forse perché troppo speciali da poter essere raccontate.

Come hai vissuto, invece, gli anni del tuo sacerdozio?
Il primo anno fui nominato viceparroco di Santa Maria delle Fabbrecce, nella periferia pesarese, parrocchia della quale poi divenni parroco per ben 15 anni.
Il Vescovo Mons. Luigi Carlo Borromeo poi mi trasferì in città affidandomi la responsabilità della pagina provinciale del giornale “Avvenire d’Italia”, dal 1962 al 1969, periodo dell’unione tra “L’Italia” di Milano e “L’Avvenire d’Italia” di Bologna.
Nel 1972, poi, su invito del nuovo Vescovo Geatano Michetti, iniziai la pubblicazione de “Il nuovo Amico”, prima come supplemento mensile del giornale “Il Piccolo Amico” di Pesaro, poi dal 1982 come autonomo quindicinale in formato tabloid. Dieci anni dopo, invece, precisamente all’inizio degli anni ’90 il giornale divenne un settimanale, come lo è anche oggi.

Come è cambiato il giornale in questi anni?
I contenuti negli anni non sono cambiati ma hanno camminato con gli orientamenti della FISC.
C’è stato, invece, un aumento della fogliazione da 16 a 24 pagine. All’inizio siamo partiti con 2-3 collaboratori e oggi, invece, tutte e tre le nostre redazioni (Pesaro, Fano e Urbino) contano 10 collaboratori fissi mentre in totale la nostra rete si avvale di circa 70 collaboratori.
È molto importante, infatti, che la diocesi abbia uno strumento attraverso il quale far sentire la propria voce che le permette di non rimanere “afona” nella società.
Un foglio, cioè, pensato per le edicole, con una forma e uno stile tendenti all’immediatezza, simile alle modalità degli altri giornali, dai quali non si distingue se non per i contenuti, per il fatto cioè che qui la notizia religiosa (anche una processione) ha la possibilità di essere raccontata in uno stile giornalistico. In sintesi, noi siamo e ci sentiamo un giornale vero e proprio e non un bollettino parrocchiale. L’importante è rimanere sempre fedeli alla verità, alla notizia… anche se questo significa andare controcorrente visto che spesso si tende, in questo mondo, a gonfiare la notizia per riempire le pagine o colpire il lettore.

Quale tra le attività di cui sei stato protagonista ti ha dato maggiore soddisfazione?
Una è sicuramente quella del cineforum, durato per ben vent’anni (dal 1962), prima nelle sale parrocchiali sparse nel territorio e poi a Pesaro, un teatro sperimentale nel comune. Sono stati davvero anni intensi: grazie a quel cineforum è nata anche la mostra internazionale del “cinema di Pesaro”.
L’altra è l’esperienza nel carcere minorile, la vicinanza ai detenuti.. con i quali ho vissuto un’ora tutti i pomeriggi, parlando, giocando, ascoltando le loro confidenze. Devo ammettere che qualche volta ho anche pensato che io, al posto loro, sarei stato anche peggio.

Come hai vissuto, invece, gli anni del Concilio?
Ho respirato particolarmente l’aria del Concilio nel convegno della CEI del 1976, intitolato “Evangelizzazione e promozione umana”: lì ho sentito profondamente la passione, la novità del Beato Paolo VI a cui faceva eco il respiro del nostro Vescovo Gaetano Michetti, il Pastore più giovane d’Italia ad aver preso parte al concilio.
In seguito il Concilio “non ha camminato” e quando lo ha ripreso di petto papa Francesco l’hanno ritenuto come un risveglio, talvolta scomodo e tra l’altro non capito.

Cosa auguri a tutto il mondo della FISC?
Mi auguro che il giornale diocesano possa diventare uno strumento non sostituibile per chi fa pastorale e che i sacerdoti possano sia sentirlo come una cosa loro e che abbiano il coraggio di volergli bene.