Chiara Biagioni

Lo ha prima cercato tra le foto scattate dei cadaveri, ripresi dal busto in su per favorire la loro ricerca da parte dei familiari. Poi, non trovandolo, è andato a perlustrare da solo i luoghi vicino casa e alla fine lo ha trovato morto dentro la macchina, travolto dallo tsunami. I cadaveri, le case distrutte, la devastazione, la furia della natura. Non si tira indietro Satou Yukio ed accetta di raccontare quei tragici giorni che hanno cambiato per sempre la storia recente di questo Paese. Era l’11 marzo del 2011 quando al largo della costa della regione di Tōhoku, nel Giappone settentrionale, alle ore 14.46 locali uno sisma di magnitudo 9 scuote la terra. Alla scossa, seguì uno tsunami violentissimo con onde alte oltre 10 metri ed una velocità di circa 750 chilometri orari. Una furia che distrusse tutto, anche la centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi a Ōkuma. E’ la tragedia nella tragedia. Secondo i dati della Caritas Giappone le vittime sono state 19.689 alle quali si aggiungono 2.563 dispersi. La maggior parte ha perso la vita a causa dello tsunami. A questi morti si aggiungono 3.723 persone che hanno perso la vita in questi 8 anni a causa delle cattive condizioni di vita da rifugiati. Molti si sono suicidati.

Satou Yukio è oggi presidente della Caritas nella parrocchia della Sacra Famiglia che si trova nel quartiere di Fuchu, a 20 chilometri da Tokyo. Lo incontriamo qui a pochi giorni dall’arrivo di Papa Francesco in Giappone. Nonostante un serrato programma, il Papa potrà parlare con le vittime di quel “triplice disastro”. E’ un colloquio atteso, carico di emozioni mai dimenticate, in sintonia con il tema scelto per questa visita papale: “Protect all life” (Proteggere ogni vita). “Noi vorremmo che Papa Francesco e con lui il mondo sappia cosa è successo”, dice Satou Yukio, “e riesca a capire che ancora oggi ci sono persone che stanno soffrendo. C’è chi ha perso i figli, chi un fratello, chi un genitore. Ci sono famiglie dimezzate che hanno perso tutto. Molti bambini sono rimasti orfani. Ma quando ci si incontra, non se ne parla più. Facciamo fatica a ricordare. Il tempo si è fermato lì”.

Il pensiero di Satou Yukio va a Ishinomaki, la città dove è nato. E’ stato tra i comuni più colpiti dal terremoto e dallo tsunami. Le onde anche qui hanno raggiunto 10 metri di altezza ed hanno viaggiato verso l’interno spingendosi fino a 5 chilometri dalla costa. Circa il 46% della città è stata inondata. Satou Yukio era al lavoro in ospedale quel giorno. Saputo del terremoto, ha cominciato a seguire le notizie su Internet. “Dalle immagini mi rendevo conto che le strade erano state tutte mangiate dal mare. Anche il luogo dove abitavo, era stato spazzato via. Sapendo che in casa c’era mio padre, avrei voluto andare lì subito ma le vie di comunicazioni erano interrotte e le linee telefoniche bloccate”. Anche i militari faticarono a raggiungere i luoghi colpiti nelle ore successive al disastro e lo poterono fare solo due giorni dopo quando il livello dell’acqua si abbassò. Passarono 10 giorni quando Satou Yukio potè fare ritorno.“Accompagnato da un cugino sono andato a cercare papà”, racconta. “Appena arrivati abbiamo visto attorno a noi solo corpi. Corpi dappertutto: dentro le case, sulla strada. Dappertutto.Ai cadaveri si aggiungeva la devastazione. Le case, i capannoni, le fabbriche. Era tutto distrutto. Un asilo intero fu spazzato via. Ricordo che anche le macchine erano volate sui tetti. Era talmente forte lo choc che non sono riuscito a scattare una foto. Anche la tv ha evitato di riprendere le scene più cruente. Non abbiamo mai visto una immagine”.

Per 3 addirittura 4 mesi la zona è stata tagliata fuori da luce e gas. Il racconto di Satou Yukio si sposta nella città di Namie-machi tra le più colpite dallo Tsunami. I vigili del fuoco e la protezione civili furono tra i primi ad entrare in città per aiutare la popolazione ma l’incidente alla centrale nucleare li richiamò e furono costretti a lasciare la città con la promessa di ritornare . Lo fecero solo un mese dopo, ma ormai per molti era troppo tardi. “In questa città la gente non è morta per lo tsunami ma è morta per la fame, le malattie, le ferite”. Le statistiche lo confermano: nella città di Namie i morti per fame furono  274.Una vergogna per un Paese che ama ed esige efficienza. Una vicenda sulla quale “il governo ha messo il segreto di Stato”.

Cercare tra i cadaveri i propri cari ancora dispersi è stata per tutti “la cosa più brutta”, ricorda Satou Yukio. “Papà è morto dentro la macchina travolto dall’acqua. Abbiamo saputo che quando c’è stata la scossa, era preoccupato per un suo amico. Ha preso quindi la macchina per raggiungerlo, ma è stato spazzato via dallo tsunami”. I giapponesi sono restii a confidare emozioni e sentimenti. Bisogna chiedere il permesso per fare le domande. Yukio accetta di farlo e confida una cosa che gli dà oggi ancora consolazione: “mentre dalle foto dei cadaveri, si vedeva chiaramente che quelle persone avevano sofferto perché erano morte per soffocamento, il volto di papà era sereno”.

La ricostruzione. Nella zona, ancora oggi è in corso un intenso programma di bonifica per decontaminare le aree colpite e dismettere l’impianto. Un procedimento che secondo le stime, impiegherà non meno di 40 anni. Nonostante le rassicurazioni della TEPCO e del governo, a otto anni dal disastro nucleare Greenpeace Giappone lancia un allarme: dall’indagine emergono livelli di radiazione in molte aree da cinque a oltre cento volte più alti del limite massimo raccomandato, e che rimarranno così per decenni diventando un rischio significativo per i cittadini. Un’indagine pubblicata in questi giorni ha attestato un aumento nel Paese di tumori alla tiroide ma “il governo – aggiunge Satou Yukio – dice che non c’è alcuna connessione”. Sta di fatto che le persone sfollate hanno paura a ritornare nelle città di origine, nonostante le pressioni del governo e il rischio di perdere da qui a breve il sussidio. C’è addirittura chi nega di essere “un sopravvissuto di Fukushima”.“Si sta ripetendo un po’ quello che è successo dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki”. “Le persone si vergognano a dire la loro origine per non essere visti come contaminati.Lo sono soprattutto i giovani per paura che questo passato possa impedire un giorno di trovare un compagno e sposarsi”. Finita l’intervista, Satou Yukio ci fa vedere un grande scatolone. E’ pieno di stracci puliti bianchi da spedire agli sfollati. Ci sono anche spedizioni costanti di verdura fresca e cibo non contaminato. “Sono piccolissimi segni, forse impercettibili dell’aiuto che la Caritas sostiene”. Un modo, come sempre in questo Paese, semplice e delicato, per far sapere a Fukushima che qui a Tokyo non hanno mai dimenticato.

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