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Geninazzi: “Cominciò una stagione di libertà”

Filippo Passantino

Nei giorni in cui il Muro cominciava a sgretolarsi, Luigi Geninazzi era lì, nei Paesi dell’Est Europa per raccontare l’evoluzione delle rivoluzioni democratiche. Nei giorni degli abbracci e della festa, dopo il crollo, era a Berlino, inviato speciale di Avvenire, per seguire sul posto quei momenti. Testimone di quei fatti, oggi, trent’anni dopo il crollo del Muro di Berlino, commenta i processi avviati in Europa in seguito a quell’episodio e le ricadute sull’Unione europea.

Luigi Geninazzi

Qual è il suo ricordo di quel 9 novembre 1989?
Stavo partendo per Mosca, ma appena è arrivata la notizia ho cambiato direzione. Sono arrivato a Berlino la mattina del 10 novembre. La sera prima, quando si è saputo della liberalizzazione dei visti per andare dall’est alla parte ovest della città, la gente si era recata in massa al Muro. Non è ancora chiaro quando e dove è stato aperto quella notte. Il 9 novembre era un giovedì. Sono stato lì tutto il weekend:

ricordo una grande festa di popolo. Commovente e coinvolgente.

Vedere queste centinaia di migliaia di berlinesi che vivevano nella parte est arrivare per la prima volta nella loro vita nella città dell’ovest era uno spettacolo. Lo spettacolo degli occhi sgranati e incuriositi dei bambini e degli adulti. Ricordo l’abbraccio tra sconosciuti.

I berlinesi dell’ovest, la mattina del 10 novembre, consegnavano fiori alle ragazze che venivano dall’est o una lattina di birra agli uomini. E poi si abbracciavano.

Il crollo del Muro ha un forte valore simbolico. Ma che cosa c’è realmente dietro?
L’immagine iconica di un muro che crolla è quella che rimane di più nella memoria, la più forte.

Ma non è stato l’episodio che ha fatto crollare il Comunismo. Il Muro cominciava a sgretolarsi giorno dopo giorno da diversi anni. Soprattutto, dall’inizio del 1989. E ha cominciato a sbriciolarsi non a Berlino, ma in Polonia e in Ungheria.

In Polonia, nove anni prima, era nato, per la prima volta in un Paese sovietico, un sindacato libero: Solidarnosc. Si è creato un movimento. Era qualcosa di forte e pacifico con una ispirazione morale. Fu fondamentale nel ’79 il ritorno in patria di Giovanni Paolo II come le sue parole “non abbiate paura”. Da lì le persone cominciarono davvero a non averne.

Quale bilancio si può tracciare trent’anni dopo quell’evento?
Quell’episodio è stato straordinario e fecondo perché allora la libertà vinse. E non perché l’Occidente aveva avuto la meglio sull’impero sovietico. Persone comuni con una forza morale sono riuscite a mani nude ad abbattere un regime repressivo. Abbiamo, però, poi dimenticato la dinamica di questo movimento. Successivamente si sono sviluppate le teorie secondo cui il mondo è più unito e si è creata una ‘globalizzazione felice’ economica e ideologica. Ma si è rivelata una grande illusione. Questo modello non ha funzionato:

quest’idea di individualismo esasperato, portato dalla globalizzazione, è fallita. E la gente, piuttosto che aperta, gioiosa e fraterna, com’era trent’anni fa, oggi si ritrova impaurita da tutto: dall’immigrazione, dalla crisi economica.

Una paura che a volte diventa risentimento e odio. Nel 1989 si è vinto perché c’era una concezione di uomo che ha funzionato. Quella di oggi non funziona. Non ci siamo accorti che questa globalizzazione aveva anche un lato oscuro e negativo.

Oggi vediamo che tendono a costruire nuovi “muri” proprio quei Paesi, come la Polonia e l’Ungheria, che trent’anni fa furono protagonisti nel crollo del Muro di Berlino. Perché?
Il calo della natalità si è registrato in maniera spaventosa nei Paesi dell’Est Europa. Ad aggravare questo trend poi è stato il fatto che milioni di giovani lasciano questi Paesi, come nel caso della Polonia. Si è affermato, quindi, un sentimento di paura nei confronti della globalizzazione: si ha paura di non esistere più. La conseguenza è che ci si tende a chiudere. Tirare su dei muri e impedire ai migranti di entrare non è la soluzione. Se è comprensibile la preoccupazione da cui nasce, non è comprensibile la reazione.

Un fatto che non è una diretta conseguenza del crollo del Muro di Berlino quanto un modello sbagliato di sviluppo…
Dietro il crollo del Muro di Berlino c’era il sogno di una possibile fraternità. Il leader ungherese Orban lo ricordo giovane – lo intervistai trent’anni fa -, voleva l’apertura delle frontiere. Oggi dice che allora era diverso.

Trent’anni fa Orban era favorevole a questo grande movimento di libertà. Adesso si trova su posizioni opposte perché pensa che per difendere quell’eredità di libertà bisogna chiudersi, per via della denatalità e dell’emigrazione dei giovani.

Quale influenza ha avuto il crollo del Muro di Berlino sull’evoluzione dell’Unione europea?
I Paesi dell’Est Europa sono entrati nell’Unione europea solo 15 anni dopo la caduta del Muro, nel 2004. Ma sono entrati in blocco. Sono stati altissimi i benefici per loro: hanno potuto contare su aiuti per lo sviluppo. La Polonia è l’unico Paese che non ha vissuto la crisi economica del 2008, ha un tasso di crescita del 4% all’anno. Ma sono gli stessi Paesi che polemizzano con l’Ue, a causa della visione ideologica che hanno sposato. Hanno ricevuto tantissimo in termini economici, ma si rifiutano di operare quella solidarietà richiesta, come l’accoglienza dei migranti. L’Unione europea invece con il loro ingresso è cresciuta sul piano mondiale e in termini di mercato.