M.Michela Nicolais

“La Chiesa si assuma, come istituzione, la responsabilità della difesa dell’Amazzonia”. È l’appello lanciato da Patricia Gualinga, leader indigena nella difesa dei diritti umani delle comunità Kichwa di Sarayaku, in Ecuador, durante il briefing di ieri sul Sinodo per l’Amazzonia. A chiedere di “rispettare i diritti dei popoli indigeni garantiti dalla Costituzione” sono stati anche mons. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, e Felicio de Araujo Pontes Junior, procuratore della Repubblica, specialista in diritti dei popoli indigeni, entrambi brasiliani. “La Costituzione del 1988 – ha spiegato Paloschi – prevedeva che entro il 1993 tutte le terre dei popoli originari dovessero essere demarcate, omologate e registrate, mentre ne sono state demarcate nemmeno un terzo, e quelle che non sono state demarcate sono state invase, prese di mira dai cercatori d’oro, dalle industrie minerarie, dalle industrie del petrolio e da quelle dello sfruttamento del legname. L’organo di governo che dovrebbe vigilare è stato preso di mira e indebolito dallo stesso governo, ma noi abbiamo i nostri diritti e la nostra lotta da portare avanti dal nostro supremo tribunale”. “Bisogna scegliere tra due modelli”, ha spiegato il procuratore della Repubblica: “il modello predatorio, tipico delle multinazionali, e quello socio-ambientale, che rispetta il rapporto delle popolazioni indigene con la propria terra. Ogni quindici giorni viene scoperta una nuova specie nella foresta amazzonica, e le monoculture distruggono tutta la biogenetica presente.

È un crimine di cui sono vittima gli indigeni, che sono i gendarmi della foresta.

Bisogna dimostrare che, anche dal punto di vista economico, vale la pena tenere la foresta in piedi, passando da una società colonialista ad una società pluralista”.

Celibato. “Se arrivasse un giorno in cui capissi che il celibato non fa più per me, lascerei”. Così padre Justino Sarmento Rezende, esperto in spiritualità indigena e pastorale inculturata, ha risposto alle domande dei giornalisti sulla possibilità che il celibato sia di ostacolo alle vocazioni al sacerdozio, per questioni di incompatibilità culturale con i popoli dell’Amazzonia. L’unico sacerdote indigeno presente al Sinodo ha fatto notare che

“il celibato non è qualcosa che è nato con la persona umana: è qualcosa che si è stabilito lungo la storia. Nessuno tra noi qui presenti è preparato a vivere il celibato, che è un dono di Dio”.

“Il celibato è una virtù che può essere vissuta da qualsiasi essere umano: non dico dalle donne, sulle quali attualmente c’è molta confusione”, ha aggiunto padre Justino. “Quando sono stato ordinato prete – ha raccontato il salesiano – mia madre non mi ha detto: ‘sei un prete per vivere il celibato’. Ha pianto, perché voleva che mi sposassi e avessi dei nipoti. E mio nonno mi ha detto: ‘essere preti non è per noi, da dove hai preso questa idea?’”. “Per me gli unici in grado di diventare sacerdoti erano i bianchi”, ha testimoniato padre Justino: “Quando poi sono diventato prete io, gli indigeni avrebbero potuto dire che per me sarebbe stato difficile. Non è stato facile, ma per me è stato molto importante vivere il celibato con lo sforzo, la preghiera e l’aiuto delle persone, in modo che io potessi vivere la mia vocazione nel modo più equilibrato possibile”. Padre Justino ha raccontato che la sua vocazione al sacerdozio “è nata quando ho visto i missionari che insegnavano il catechismo ai miei nonni, che non capivano la lingua portoghese. Io ero un adolescente, ho pensato che anch’io potevo diventare un giorno sacerdote, ma nella mia propria lingua”. Quando poi, nel 1976, nella sua diocesi è nato un seminario, “io e altri giovani indigeni siamo andati a chiedere come si diventava sacerdoti”. “Essere sacerdoti non è per voi, andate a giocare”, è stata la risposta di un prete di allora: “E noi siamo andati a giocare a pallone”, ha detto padre Justino.

Volto amazzonico. “L’inculturazione non si fa con il proselitismo, ma con la testimonianza”. A ribadirlo è stato mons. Paloschi, ricordando che “ogni processo di inculturazione rispetta il processo da entrambi le parti: non si tratta di imporre una cultura dall’alto, ma di preservare i semi presenti in ogni cultura.

Nessuna cultura è perfetta,

tutti noi abbiamo bisogno di adeguarci per diventare una nuova creatura: l’annuncio del Vangelo è un annuncio di vita nuova, senza però abbandonare le proprie tradizioni”. “Non possiamo fare qualcosa senza avere delle informazioni sulla vita dei popoli indigeni”, ha aggiunto padre Sarmento Rezende a proposito dell’interculturalità: “Una Chiesa dal volto amazzonico è una Chiesa che si appropria delle sue tradizioni, che evangelizza nella propria lingua ma nello stesso tempo studia anche la teologia e la dottrina della Chiesa. Gli indigeni che sono stati battezzati possono fare diversamente, rispetto a ciò che gli antichi missionari hanno fatto, chiedendosi che cosa significhi evangelizzare oggi nel modo migliore”. “Quando parliamo di Eucaristia – ha puntualizzato il salesiano – noi sogniamo insieme: vogliamo operare congiuntamente per concretizzare non il sogno di una persona, ma di un popolo”. “Si tratta di processi lenti, che non nascono da un momento all’alto”, ha osservato riferendosi indirettamente alla questione dei “viri probati” e all’impostazione in generale della vita pastorale in Amazzonia: “è molto importante che i missionari e i laici lavorino insieme, per il miglior lavoro possibile a favore del popolo amazzonico”.

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