M. Chiara Biagioni

Sfiora i 70 morti il bilancio della distruzione causata dal tifone Hagibis in Giappone. Alle vittime si aggiungono almeno 16 dispersi e quasi 200 feriti ma il bilancio purtroppo è destinato ad aumentare nel corso dei prossimi giorni. Le ricerche e le operazioni di soccorso vanno avanti senza sosta soprattutto nelle regioni più colpite.  A fare il punto della situazione è Maria Antonietta (Mitty) Casulli, italiana a Tokyo da tre anni. Vive nella comunità dei focolari in Giappone e sta facendo all’Università Sophia (dei gesuiti) un dottorato in chimica analitica. La regione più colpita – racconta – è quella di Nagano dove sono straripati 37 fiumi. Nella capitale, invece, “c’è stata più pioggia che vento e il tifone ha causato allagamenti in alcune zone della città, in particolare laddove i fiumi sono straripati. Le case giapponesi sono di legno ed è facile che l’acqua entri dentro”. Le dimensioni del disastro rimangono ancora difficili da quantificare per via dell’alto livello dell’acqua che rende impraticabile l’accesso alle zone rurali del Paese. Il numero delle abitazioni senza elettricità è sceso da 520mila a 34mila, con il verificarsi, tuttavia, di frequenti interruzioni della luce.

Nonostante il numero delle vittime e i danni, il sistema di prevenzione attivato già nei giorni scorsi ha sicuramente impedito il peggio. “È da una settimana – racconta Mitty – che ci hanno detto di comprare cibo, chiuderci dentro le case, mettere lo scotch alle finestre, allontanarci dai punti più pericolosi. Tutti quelli che abitavano nelle zone a rischio sono andati a dormire nelle palestre il giorno prima”.Circa 38mila persone in 17 prefetture sono state ospitate nei centri di accoglienza organizzati dal governo.Il Giappone ha conosciuto anche di recente catastrofi naturali che lo hanno messo a dura prova. L’11 marzo 2011 un sisma di magnitudo 9 ha generato uno tsunami, che ha investito la nota centrale nucleare di Fukushima con conseguente propagarsi delle radiazioni. Secondo dati governativi, quasi 16mila persone morirono in seguito al maremoto e oltre 2.500 risultano ancora disperse. Almeno 3.700 persone sono decedute per problemi di salute associati al disastro.

“I giapponesi vivono queste calamità con sacralità”, sottolinea Mitty. “Quando c’è un terremoto o si è travolti da un tifone, cala un profondo silenzio. Non c’è rumore, non ci sono urla né scompiglio.Non si vedono scene di panico. Mai. Nel momento dell’emergenza e del pericolo, si pensa all’altro e si reagisce con una calma che colpisce gli occidentali.E questo succede sempre: dalle cose più banali come un ritardo del treno ai terremoti più violenti. La gente aspetta, si mette in fila. Anche i bambini sono educati così. Mi hanno raccontato che, nei giorni successivi al terremoto del 2011, ad un bambino, che era in fila per accedere alla distribuzione dei pasti, hanno detto che poteva andare avanti ma lui ha risposto: ‘No, io aspetto qui il mio turno’. Questo è il Giappone e questi sono i giapponesi”.

La foto di Nagasaki scelta da Papa Francesco per inviare al mondo un messaggio di pace, contro ogni guerra, ritrae dopo la bomba atomica un bambino che tiene sulle spalle il fratellino morto. È l’emblema del Giappone. Siamo nella Nagasaki del 1945. Il ragazzo, con in spalla il fratellino morto nel bombardamento atomico, attende il suo turno per far cremare il corpicino senza vita. “Nonostante la tragedia, quel bambino sta dritto in piedi.È l’immagine più vera e più forte di una cultura che mai demorde, che sempre resiste, anche di fronte al dolore più grande. Rimane dritto in piedi”.Cosa spinge i giapponesi a reagire così “è la cultura del bene comune”, spiega Mitty. “Non la cultura dell’io, ma una cultura del noi. Quando ci sono terremoti, c’è un abbassamento di energia totale generale. Si spengono le luci di alcune parti della città per risparmiare e tutto è per il bene collettivo.  Questa è la chiave della ricostruzione, in tempo record. È successo per Fukushima, succederà anche per questa occasione. A poche ore dalla furia del tifone, tutti già sono al lavoro non per la propria casa, ma per tutti”.

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