Giovanna Pasqualin Traversa

“La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. È quanto si legge nel comunicato diffuso dall’ufficio stampa della Corte costituzionale a seguito dell’udienza pubblica degli scorsi 24 e 25 settembre sulla questione di legittimità dell’art. 580 del codice penale, concernente il divieto di aiuto al suicidio. In attesa della pubblicazione della sentenza e delle correlative motivazioni il Sir ha interpellato Luciano Eusebi, docente di diritto penale all’Università Cattolica di Milano.

Professore, facciamo il punto della situazione.

Ci troviamo in una fase interlocutoria. Non abbiamo ancora la pronuncia, che potrebbe assumere forme giuridiche fra loro diverse, comportanti diverse implicazioni sulla legislazione in vigore e sulle modalità di intervento da parte del Parlamento. Così come non abbiamo, conseguentemente, le motivazioni della Corte. Nei suoi contenuti il comunicato riprende gli assunti di cui all’ordinanza n. 207/2018 della medesima Corte, evidenziando che quest’ultima

riconosce, a determinate condizioni, l’ammissibilità della cooperazione all’intento altrui di anticipare artificialmente la propria morte:

con ciò oltrepassandosi il punto di equilibrio fissato in materia dal Parlamento con la legge n. 219/2017. Secondo tale provvedimento, infatti, non possono essere protratte terapie (anche) salvavita quando il paziente le rifiuti in modo libero e informato e, in quel caso, va assicurato al medesimo un decorso verso la morte privo di sofferenza, pure facendo ricorso, ove necessario, alla sedazione palliativa profonda.

La stessa legge n. 219/207 non ammette, invece, forme di assistenza al proposito di indurre la propria morte o pratiche di eutanasia.

Questo rende palese come il Parlamento non sia rimasto inerte rispetto alla problematica delle cosiddette scelte di fine vita, e come tale presunta inerzia non gli possa essere addebitata semplicemente per non aver dato seguito, nel periodo di tempo assegnatogli lo scorso anno dalla Corte costituzionale (con una modalità inedita del rapporto tra poteri dello Stato), alla richiesta proveniente dalla Corte medesima di ridisegnare la disciplina dell’intera materia in base agli assunti richiamati di cui alla citata ordinanza n. 207/2018.

Quale potrebbe essere la determinazione del legislatore sulla scorta delle indicazioni provenienti dalla Corte?

Il passaggio giuridico che si preannuncia suscita gravi profili di preoccupazione.

Perché?

Anzitutto incide profondamente sulle modalità dei rapporti intersoggettivi, e in particolare sul ruolo del medico, accreditando per la prima volta l’agire per produrre la morte di un altro individuo come risposta possibile ai problemi che sta vivendo. In un contesto mediatico, poi, nel quale appare continua la rappresentazione della scelta di morire come scelta “dignitosa” in determinate condizioni di salute, quel passaggio finisce per rafforzare forme di sollecitazione implicita nei confronti dei malati più gravi ad abbreviare il decorso della loro vita, e di colpevolizzazione dei malati che agiscano diversamente.

I limiti indicati dalla Corte sono da ritenersi insuperabili?

Ove, dunque, il suddetto passaggio sarà compiuto, assumerà grande importanza

prestare attenzione a che i limiti indicati dalla Corte costituzionale siano giuridicamente costruiti in modo da rendersi effettivi:

ad esempio per quanto concerne l’avvenuta attivazione delle cure palliative e il sussistere dei trattamenti di sostegno vitale;  in modo da evitare, fra l’altro, che quest’ultimo limite venga eluso considerando pur sempre come trattamenti di sostegno vitale anche l’alimentazione e l’idratazione assistite. La Corte continua, peraltro, a dichiararsi “in attesa di un indispensabile intervento del legislatore”, emergendo dunque l’interrogativo circa l’ambito di autonomia del potere legislativo in rapporto alla decisione che la Corte medesima assumerà: un intervento che può essere necessario, come si diceva, perché i limiti e le procedure richiesti da quest’ultima non siano resi, in sede interpretativa e applicativa, evanescenti o aggirabili, ma che potrebbe anche tradursi, non lo si può escludere,

in una rivisitazione normativa futura del tutto nuova dell’intera materia.

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