DIOCESI – Aperte le iscrizioni per il 46° anno della scuola di formazione teologica diocesana. A darne notizia il direttore Don Gian Luca Pelliccioni.
Dal 1 settembre sarà possibile iscriversi presso gli uffici di curia in piazza Sacconi a San Benedetto del Tronto, dalle 10.00 alle 13.00 dal lunedì al venerdì.

L’offerta formativa è distribuita in tre anni. Le lezioni si svolgono settimanalmente ed è raccomandata una assidua frequenza. Gli studenti sono invitati a sostenere dialogo-esami con i docenti, anche attraverso dei lavori scritti.
La scuola non rilascia titoli accademici validi per insegnamento della religione o per l’inserimento in Istituti di scienze religiose o teologici. Alla fine del triennio verrà consegnato allo studente un Attestato di Partecipazione.
Per gli studenti che sosterranno gli esami con i docenti, si avrà un diploma di cultura teologica.
Gli studenti ordinari sono quelli che, iscritti, partecipano a tutte le lezioni. Si accolgono volentieri anche iscrizioni di studenti straordinari, i quali scelgono di partecipare a uno o più corsi specifici.

Don Gianluca Pelliccioni, propone ai lettori dell’Ancora un approfondimento pubblicato dal sito www.sanfrancescopatronoditalia.it che come afferma il direttore della Scuola Teologica diocesana: “Ben evidenzia la missione della scuola nell’oggi della nostra chiesa, in quanto La ‘teologia’ senza un popolo diventa ‘ideologia’“.

Dottrina e pastorale sono legate come la preghiera e la vita, è falsa l’opposizione di una all’altra. Così si è espresso Papa Francesco in un video messaggio inviato al Congresso Internazionale di Teologia a Buenos Aires, che si è concluso ieri, in occasione del centenario della Facoltà di teologia dell’Università Cattolica Argentina e nel cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II. Le meditate parole del Pontefice entrano in qualche modo  anche nel dibattito sinodale sulla famiglia.

«Non esiste una Chiesa particolare isolata – ha spiegato Francesco – che possa dirsi sola, come pretendendo di essere signora e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il monopolio della interpretazione o dell’inculturazione. Come, al contrario, non esiste una Chiesa universale che dia le spalle, ignori e si disinteressi della realtà locale. La cattolicità esige, chiede questa polarità in tensione tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il molteplice, tra il semplice il complesso. Annullare questa tensione va contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, pone a rischio la fede del popolo di Dio».
«Considerare insignificante una delle due istanze – continua il Papa – significa metterci in un labirinto che non sarà portatore di vita per la nostra gente. Rompere questa comunicazione ci porterà facilmente a fare del nostro sguardo, della nostra teologia una ideologia. Per questo mi rallegra che la celebrazione dei cento anni della Facoltà di teologia si accompagni alla celebrazione dei cinquant’anni del Concilio».
Francesco ha quindi citato e valorizzato un’immagine proposta da Benedetto XVI il quale riferendosi alla Tradizione della Chiesa affermava che «non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità». Questo fiume, ha detto Bergoglio, «va irrigando terre diverse, va alimentando diverse geografie, sta facendo germinare il meglio da questa terra, il meglio da questa cultura. In questo modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli del mondo in modo sempre nuovo».
«Questo ci porta a riflettere – spiega Francesco – che non si è cristiani allo stesso modo nell’Argentina di oggi e in quella di cento anni fa. Non si è cristiano nella stessa maniera in India, in Canada o a Roma. Perciò uno dei principali compiti del teologo è discernere, riflettere: che cosa significa essere cristiano oggi?, nel “qui ed ora”? Come questo fiume delle origini riesce a irrigare queste terre e farsi visibile e vivibile?».

«Per incarnare questa sfida – aggiunge il Papa – dobbiamo superare due possibili tentazioni: condannare tutto, cullandoci nella ben conosciuta frase “tutto il passato è stato migliore”, rifugiandoci nel conservatorismo o nel fondamentalismo. O, al contrario, consacrare tutto, svalutando tutto ciò che non abbia “il sapore di novità”, relativizzando tutta la sapienza portata dal ricco patrimonio ecclesiale. Per superare queste tentazioni, il cammino è la riflessione, il discernimento, prendere molto sul serio la Tradizione ecclesiale e molto sul serio la realtà, mettendole in dialogo tra loro».
«Non sono poche le volte – ha detto il Pontefice, offrendo un’interpretazione illuminante su tanti dibattiti degli ultimi mesi – in cui si genera un’opposizione fra teologia e pastorale, come se fossero due realtà opposte, separate, che nulla hanno a che vedere l’una con l’altra. Non sono poche le volte in cui identifichiamo il dottrinale con il conservatore, retrogrado. E al contrario, pensiamo alla pastorale dal punto di vista dell’adattamento, della riduzione, dell’accomodamento. Come se non avessero niente a vedere tra di loro. In questo modo si genera una falsa opposizione tra i cosiddetti “pastoralisti” e “accademicisti”, quelli che stanno dalla parte del popolo e quelli che stanno dalla parte della dottrina». Si genera così, spiega, «una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente; la vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita. I grandi padri della Chiesa, Ireneo, Agostino, Basilio, Ambrogio – per nominarne alcuni – sono stati grandi teologi perché sono stati grandi pastori».

«Cercare di superare questo divorzio tra la teologia e la pastorale, tra la fede e la vita – dice ancora Francesco nel videomessaggio – è stato precisamente uno dei principali apporti del Concilio Vaticano II. Arrivo a dire che ha rivoluzionato in un certo modo lo statuto della teologia, il modo di fare e di pensare credente. Non posso dimenticare le parole di Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio, quando diceva: una cosa è la sostanza dell’antica dottrina, del “depositum fidei”, e un’altra è il modo di formulare la sua espressione. Dobbiamo fare il lavoro, l’arduo lavoro di distinguere, il messaggio della Vita dalla sua forma di trasmissione, dai suoi elementi culturali nei quali un tempo è stato codificato».

«Non fare questo esercizio di discernimento – avverte il Papa – porta in un modo o nell’altro a tradire il contenuto del messaggio. Fa sì che la Buona Novella smetta di essere nuova e specialmente buona, trasformandosi in una parola sterile, vuota di tutta la sua forma creatrice, risanante, resuscitante, ponendo così in pericolo la fede delle persone del nostro tempo. La mancanza di questo esercizio teologico ecclesiale è una mutilazione della missione che siamo invitati a realizzare».

«La dottrina non è un sistema chiuso, privata di dinamiche capaci di generare interrogativi, dubbi, questioni. Al contrario – chiarisce Papa Bergoglio – la dottrina cristiana ha faccia, ha corpo, ha carne, si chiama Gesù Cristo ed è la sua Vita quella che viene offerta di generazione in generazione a tutti gli uomini e in tutti gli angoli della terra. Custodire la dottrina esige fedeltà a ciò che si è ricevuto e – allo stesso tempo – tenere conto dell’interlocutore, del suo destinatario, conoscerlo e amarlo. Questo incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale, è costitutivo di una teologia che voglia essere ecclesiale».
Per questo «le domande del nostro popolo, le sue angustie, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a farci domande, le sue questioni ci mettono in questione. Tutto ciò ci aiuta ad approfondire il mistero della Parola di Dio, Parola che esige e chiede di dialogare, di entrare in comunicazione. È da qui che deriva il fatto di non poter ignorare la nostra gente al momento di fare teologia. Il nostro Dio la scelto questo cammino. Lui si è incarnato in questo mondo, attraversato da conflitti, ingiustizie, violenze; attraversato da speranze e sogni».

«Fa insospettire il cristiano che non ammette più la necessità di lasciarsi criticare dagli altri interlocutori. Le persone e le loro diverse conflittualità, le periferie, non sono opzionali, ma necessarie per una maggiore comprensione della fede. Per questo è importante domandarci: per chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti a noi? Senza questo incontro, con la famiglia, con il popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di trasformarsi in ideologia. Non dimentichiamoci, è lo Spirito Santo nel popolo orante il soggetto della teologia. Una teologia che non nasca nel suo grembo, ha l’aspetto di una proposta che può essere bella, ma non è reale».
Il Papa ha concluso il suo messaggio ricordando che il teologo è principalmente figlio del suo popolo, e «incontra le persone, le storie», conosce «la tradizione». È «l’uomo che impara ad apprezzare quello ha ricevuto come un segno della presenza di Dio». Il teologo «è un credente che fa esperienza di Gesù Cristo, e ha scoperto che senza di lui non può vivere». Il teologo è un profeta perché riflettendo «la tradizione che ha ricevuto dalla Chiesa» egli «mantiene viva la consapevolezza del passato», creando l’invito al futuro in cui Gesù sconfigge l’autoreferenzialità e la mancanza di «speranza». Ed è centrale la preghiera, via e realtà «tra passato e presente, tra il presente e il futuro».

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