Patrizia Caiffa

Si sta consumando nel silenzio della comunità internazionale la confisca della strutture sanitarie cattoliche in Eritrea. Lo scorso 12 giugno militari, poliziotti e rappresentanti del ministero della sanità hanno confiscato 21 tra ospedali e cliniche cattoliche. Insieme ad altri 8 centri già requisiti due anni fa, sono 29 in totale, le strutture sanitarie di proprietà di congregazioni religiose o diocesi forzate alla chiusura. Le case dei religiosi sono state circondate e sorvegliate, tra insulti, intimidazioni e minacce al personale, con pazienti gravi costretti alle dimissioni. Centinaia di operatori sanitari che lavoravano nelle cliniche cattoliche hanno perso il posto di lavoro. La cosa più grave, è che circa 200.000 persone, di tutte le religioni, che usufruivano di questi servizi in zone molto povere, rurali e isolate, dall’ospedale di Digsa nel distretto di Segheneyti all’Engerne health station (la lista completa è stata stilata dall’Eritrean catholic secretariat) non potranno più disporre di cure mediche. I vescovi delle quattro diocesi cattoliche (Asmara, Barentu, Keren e Segheneyti), da sempre impegnati per la ricociliazione nazionale, hanno inviato il 13 giugno una lettera di richiesta di spiegazioni al ministro della salute, denunciando “l’aperta violazione dei diritti della Chiesa” che però – si legge – resta “aperta e disponibile al dialogo e alla mutua comprensione”. Nel frattempo ha indetto tre settimane di preghiera e digiuno fino al 12 luglio. Al momento, però, nessuna risposta ufficiale è ancora arrivata.

Tra le realtà cattoliche che da decenni gestivano le strutture figurano i nomi delle missionarie comboniane, le Figlie di Sant’Anna, le Suore della Carità, le Cappuccine, le diocesi eritree. All’ospedale di Digsa, sorto nel 1992 da una collaborazione tra la diocesi di Asmara e l’Associazione missionaria internazionale di Faenza, lo scorso anno sono stati effettuati 1.000 ricoveri, 20.000 visite ambulatoriali e 25.000 esami diagnostici. Sono stati distribuiti 1800 pacchi di generi alimentari per i poveri, gli anziani, i pazienti affetti da Tbc e Hiv/Aids. Fino al 12 giugno vi lavoravano le suore Figlie di Sant’Anna e 22 dipendenti tra medici, infermieri, tecnici di laboratorio e inservienti.

La protesta della diaspora eritrea. La diaspora eritrea ha annunciato mobilitazioni e sit in di protesta. E’ già partita una raccolta firme ma anche gli esuli vengono presi di mira, come documentato da un recentissimo rapporto di Amnesty international “Eritrea, repressione senza frontiere”. Secondo l’organizzazione per i diritti umani molti eritrei che vivono in Kenya, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Stati Uniti, ricevono minacce di morte, aggressioni fisiche e vengono diffuse contro di loro notizie false, usando anche l’ala giovanile del partito al potere per “combattere i nemici all’estero” e spiarli. Non ha timore di parlarne don Mussie Zerai, sacerdote eritreo della diocesi di Asmara, presidente dell’agenzia Habeshia, già candidato al Nobel per la pace nel 2015 per il suo impegno a favore dei migranti: “Tanto in Eritrea – dice al Sir –  non potrò più tornare, mi hanno già ritirato il passaporto. Sono abituato agli insulti sui social. Anche in Italia cercano di macchiare la nostra immagine per farci perdere ogni credibilità”. “Nei centri medici metteranno personale scelto dal governo, probabilmente attingendo al servizio militare a tempo indeterminato. E temo che dopo la sanità – prosegue – passeranno anche all’educazione. La Chiesa cattolica gestisce 50 scuole, dalle elementari alle superiori, oltre ad un centinaio di asili nido”.

Perché? In una nota ufficiale l’Ambasciata eritrea a Roma ricorda che “l’Eritrea permette a tutte le confessioni di esercitare liberamente il loro credo, nel rispetto della legge 73 del 15 luglio 1995”, “poiché la società eritrea è una società multietnica e multiconfessionale, lo Stato dell’Eritrea è per definizione uno Stato laico”.  Per quanto riguarda la vicenda dei centri medici, precisa la sede diplomatica, “non si tratta di chiusura bensì di passaggio di gestione, secondo quanto sancito dalla legge 73/1995”. Nella nota viene ricordato che “i piani di sviluppo sociale e di servizi sociali sono di pertinenza governativa e il laicismo, nel quale lo Stato eritreo si riconosce, implica una netta separazione di ruoli, senza che la libertà di culto ne sia minacciata”.“La Chiesa è tollerata solo se rimane dentro le sacrestie – osserva invece don Zerai -. Quando si occupa delle persone, come sua caratteristica, allora diventa un problema”. Gli stessi vescovi eritrei lo hanno ribadito in quest’ultima lettera:

“La Chiesa è animata solo dal desiderio di servire il popolo, mai da intenzioni contrarie al Paese e allo Stato o, tantomeno, dall’ambizione di sostituire quest’ultimo nei suoi compiti”.

Libertà di culto? I cattolici eritrei sono una minoranza nel Paese (circa 167.000 persone) e sempre più giovani fuggono, mettendo a rischio la vita nelle mani dei trafficanti di esseri umani. “Le parrocchie si svuotano, le famiglie sono disgregate”, racconta ancora don Zerai. “Una suora arrestata il 12 giugno è stata rilasciata”, informa, ma il governo di Isayas Afewerki, al potere dal 1993, tiene ancora in carcere “cinque monaci ortodossi ultrasettantenni. Un patriarca ortodosso è agli arresti domiciliari da 14 anni. 140 fedeli delle Chiese pentecostali, dichiarate illegali nel Paese, sono stati arrestati. Fonti locali raccontano che la polizia ha fatto irruzione perfino durante un matrimonio, arrestando gli sposi. L’amministrazione economica della Chiesa ortodossa è controllata dal partito. Devono consegnare allo Stato le offerte raccolte, che poi dà in cambio un salario. La Chiesa cattolica ha fatto il possibile, finora, per cercare di rimanere autonoma”. Inoltre, al momento non c’è nemmeno un nunzio apostolico che possa rappresentare gli interessi della Santa Sede. Monsignor Hubertus Matheus Maria van Megen, nunzio per Sudan ed Eritrea,  quest’anno è stato nominato in Kenya, per cui la sede è vacante. “E questo – ammette don Zerai – purtroppo non aiuta”.

E il governo italiano? Il governo italiano non si è ancora pronunciato. “L’Italia ha molti interessi politici ed economici – afferma  don Zerai – e insieme all’Unione europea potrebbe mediare e chiedere al governo eritreo di aprirsi e favorire lo sviluppo del Paese nel rispetto dei diritti e della democrazia. Invece, soprattutto dopo la firma della pace con l’Etiopia avvenuta lo scorso anno, sembra che l’unica priorità sia solo quella di chiedere agli imprenditori italiani di investire in Eritrea. Mi domando come, però, e con quali garanzie se il settore privato viene ucciso?”. Per questo da tempo la diaspora eritrea continua a chiedere all’Unione europea e agli Stati Uniti di fare maggiore pressione diplomatica: “Finora non abbiamo visto reazioni e la situazione – conclude don Zerai – sta peggiorando sempre di più”.

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *