Patrizia Caiffa

“Aprire i porti alle persone, chiuderli alle navi che trasportano armi”: si può sintetizzare così il monito di Papa Francesco, durante il discorso ai membri della Roaco (Riunione delle Opere di Aiuto alle Chiese Orientali). Il pensiero va alla situazione italiana (i porti chiusi alle Ong che salvano i migranti) ma anche ad un caso internazionale recentemente assurto agli onori delle cronache: la mobilitazione delle società civili di diversi Paesi europei e poi dei portuali di Genova, contro la nave saudita Bahri Yanbuc, destinata a caricare armi che rischiano di essere impiegate nel conflitto in Yemen. La nave proveniva dagli Usa, poi ha fatto altri carichi di armi nel nord Europa tra le proteste delle società civili locali, per proseguire verso l’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita è a capo di una coalizione implicata nella guerra in Yemen, una delle peggiori crisi umanitarie di questi tempi. In Italia la legge 185/90 vieta espressamente di vendere armi a Paesi in guerra, come previsto anche nel Trattato internazionale sul commercio delle armi (Att) ratificato dal nostro Paese. La Bahri Yanbuc ha poi caricato a Cagliari, in totale segretezza e impiegando personale privato, quattro container di bombe prodotte dalla Rwm Italia, l’azienda con sede a Ghedi, Brescia, e stabilimento a Domusnovas in Sardegna. Secondo i dati della Relazione al Parlamento pubblicata nel maggio 2019 il 72,8% dell’export di armi italiano è destinato a Paesi che non fanno parte del blocco euro-atlantico (quindi extra-Ue ed extra-Nato). Nel 2018 i primi quattro Paesi importatori di armi dall’Italia sono stati il Qatar (1,923 miliardi di euro), il Pakistan (682,9 milioni), la Turchia (362,3 milioni), gli Emirati Arabi Uniti (220,3 milioni). Nel complesso, le autorizzazioni per le esportazioni destinate ai Paesi dell’area mediorientale e nordafricana è stato di 2.306.818.566 di euro, contro i 4.641.778.539 registrati nel 2017. Vi è stato dunque un calo del 50,3%. A livello mondiale l’Italia è tra i primi dieci Paesi esportatori di armi. La parte del leone spetta a Stati Uniti (36%), Russia, Francia, Germania e Cina, che coprono i tre quarti del mercato internazionale. Ne abbiamo parlato con Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo, da anni in prima linea nel contrasto alla produzione e commercio di armi. A livello informale si è costituito un coordinamento tra varie organizzazioni, tra cui Amnesty international, Oxfam Italia, Medici senza frontiere, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi Italia, Comitato per la riconversione RWM e il lavoro sostenibile, Fondazione Finanza Etica, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo, Save the Children Italia che sta cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema.

Maurizio Simoncelli, vicepresidente Archivio Disarmo

L’appello del Papa dà maggiore forza alla vostra azione civile?

E’ un appello che si basa su uno slogan che condividiamo totalmente: no porti chiusi alle persone, sì porti chiusi alle armi. Soprattutto perché

l’Italia esporta i tre quarti delle sue armi ai Paesi che non appartengono alla Nato né all’Unione europea. E molti sono Paesi in situazione di instabilità o con regimi dittatoriali.

Siamo fortemente sbilanciati verso l’Asia e il Medio Oriente, circa la metà delle nostre esportazioni. Sappiamo anche che le armi vanno nel Paese limitrofo e poi da lì transitano verso le zone di conflitto. Non è casuale che, da quando sono scoppiate le “primavere arabe”, nei conflitti in Siria e in Libia siano state acquistate armi anche dall’Italia. Sono vasi comunicanti. Pensiamo alla Libia, con il generale Haftar talmente armato da poter minacciare il presidente Serraj.

In occasione dell’arrivo a Genova della nave Bahri Yanbuc c’è stata addirittura una mobilitazione dei portuali di Genova. Un fatto nuovo e significativo?

Sì, questo è l’elemento nuovo ed importante. Finalmente, dopo tanti anni, c’è un’attenzione delle forze sindacali. Non va dimenticato che la nave si è diretta a Cagliari, dove ha caricato in totale segretezza e ad opera delle manovalanze che erano sulla nave, probabilmente bombe della RWM. Ma in quel caso i portuali sono stati esclusi, proprio per timore che potrebbero bloccare il carico. Quindi sono stati scavalcati da un accordo a livello istituzionale.

Con quale frequenza le navi cariche di armi circolano nei porti del Mediterraneo?

Sono percorsi abbastanza frequenti.

Il fatto positivo è che in questi anni si è formato questo coordinamento tra soggetti che operano in settori molto diversi, non solo il mondo pacifista di antica data. Si è creata una rete informale tra organizzazioni laiche, cristiane e sindacati e stiamo monitorando questi passaggi. L’appoggio del sindacato è fondamentale perché la partecipazione dei lavoratori dei porti mette molto in difficoltà le compagnie.

In questa mobilitazione trasversale, che coinvolge anche realtà cattoliche, che margini di azione ci sono?

Ci fa sperare che si allarghi all’opinione pubblica una sensibilità su questi temi. Anche se a livello governativo in questi anni non mi sembra ci sia stata grande sensibilità. La politica è stata sempre quella di vendere le armi, purtroppo. Ora

stiamo premendo perché in Commissione esteri si discuta una mozione del Parlamento europeo che chiede ai governi nazionali di mettere embarghi sulla vendita di armi ai sauditi.

Sul finire della scorsa legislatura furono fatte una serie di proposte che poi non passarono. Con il “governo del cambiamento” abbiamo provato a riproporre una presa in carico delle mozioni del Parlamento europeo, approvate già tre volte, ma da due o tre mesi la discussione in Commissione viene rimandata.

Si sta aggirando la legge 185 che vieta la vendita di armi ai Paesi in guerra?

La legge lo dice chiaramente e, nel caso, il governo dovrebbe sentire il parere delle Camere. Cosa che nessun governo ha mai fatto.

Sono state vendute armi tranquillamente.

Questo è il primo vulnus. Inoltre negli articoli successivi c’è un comma che dice che le norme della legge 185 non si applicano ai Paesi con cui ci sono accordi di cooperazione. Il Parlamento italiano, nel corso degli anni, ha approvato accordi di cooperazione militare che sulla carta sono molto generici, con decine e decine di Paesi, tra i quali l’Arabia Saudita. Quindi

da un punto di vista giuridico non c’è una violazione della legge ma un aggiramento della legge.

Tanto è vero che lo stesso Sergio Mattarella, quando non era ancora presidente della Repubblica, in una seduta al Parlamento dichiarò che questa era una formula per aggirare la 185. Anni fa pubblicammo un report che già elencava almeno 50/60 accordi di cooperazione militare con Paesi africani, mediorientali, asiatici, latinoamericani. Abbiamo anche sottoscritto un altro impegno a livello internazionale, l’Arm treaty (Att), il trattato internazionale sul commercio delle armi, che dice chiaramente: se un governo presume che le armi possono servire per violare i diritti umani – e sullo Yemen vi è la certezza – si potrebbe sospendere l’invio delle armi. Ma siccome l’Att non prevede sanzioni per chi non lo rispetta siamo al punto di partenza.

Le navi sono il mezzo di trasporto preferenziale per le armi? In che altri modi si muovono?

Sì in linea di massima viaggiano via mare, però ci sono anche trasporti via aereo.

Le bombe prodotte dalla Rwm viaggiano anche sugli aerei. Inizialmente partivano dagli aeroporti civili, poi sono stati spostati sugli aeroporti militari per evitare occhi indiscreti.

Poi c’è tutto il discorso del commercio illecito di armi e della criminalità organizzata: in quel caso le rotte europee sono prevalentemente via terra perché nel Mediterraneo, con il controllo dell’immigrazione illegale, diventa rischioso portare armi. Si tratta di piccole partite: ma se ogni giorno passano 10 fucili mitragliatori alla fine dell’anno si costituisce un vero e proprio arsenale. E’ il cosiddetto “commercio formica” usato quotidianamente e che dà i suoi frutti nel tempo.

Ci sono altre navi di armi in arrivo nei porti italiani?

A giorni dovrebbe arrivarne un’altra della stessa compagnia, la Bahri,

già nota come National Shipping Company of Saudi Arabia, anche se non si sa quale carico contenga. E’ una flotta di navi che periodicamente fa questo percorso.

Il trasporto ufficiale è noto ma a volte sono navi commerciali che magari trasportano armi e non lo sappiamo.

Poi in questi casi vige la massima segretezza da parte delle autorità italiane ed è difficile avere informazioni in merito.

C’è quindi una doppia morale: porti chiusi per i migranti e aperti per il trasporto delle armi?

Sì. E contemporaneamente gettiamo benzina sul fuoco che divampa nelle zone di provenienza dei profughi, che però non vogliamo accogliere.

Aiutiamoli a casa loro: certamente il tipo di aiuto che stiamo dando adesso non è quello che li fa rimanere a casa loro.

Sarebbe davvero possibile chiudere i porti alle navi che trasportano armi: ci sono dei precedenti?

Sono decisioni politiche. Precedenti ci sono: lo stesso governo italiano a suo tempo bloccò la vendita di navi militari all’Iraq di Saddam Hussein, nonostante fosse già stata in parte pagata con un congruo acconto. Gli equipaggi iracheni si stavano già addestrando sulle nostre navi, ferme nei porti, poi scoppiò la guerra del Golfo, quando l’Iraq attaccò il Kuwait e l’Italia bloccò la vendita. In parte le prese la Marina militare, in parte sono state vendute ai Paesi dell’Estremo Oriente.

Quando c’è la volontà politica questo può avvenire senza problemi.

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