Marco Bonatti

Il 2019 non si presenta come un anno di ricorrenze festose, in Cina. Nella prima settimana di giugno si ricordano i giorni sanguinosi di piazza Tian An Men: centinaia (migliaia, forse) di persone rimaste uccise dalla repressione scatenata contro le manifestazioni degli studenti. Ma nello stesso 1989 entrò in vigore la legge marziale in Tibet; e giusto 60 anni fa il Dalai Lama dovette abbandonare il suo paese per sfuggire all’invasione dell’Esercito di Liberazione. E ancora: sono passati vent’anni dall’inizio della persecuzione sistematica dei “Falun Gong”, il movimento religioso “colpevole” di non adeguarsi alla disciplina del partito.

Su queste date “nere” del calendario cinese si tace, in tutto il Regno di Mezzo.

Anche perché la Cina di oggi scommette che niente di simile a quanto accadde nel giugno 1989 oggi sarebbe possibile. Il Paese in mano a Xi Jinping è infinitamente più solido (e più controllato) di 30 anni fa. E, soprattutto, è molto più ricco. Nel 1989 il prodotto interno lordo cinese era di 347 milioni di dollari, oggi (2018) è ben al di sopra degli 8mila miliardi. Soprattutto, al di là della cifre, esiste oggi in Cina quel che 30 anni fa non c’era: una classe media che, col lavoro e il risparmio, si è conquistata una casa e un’automobile, che investe sulle scuole dei figli e che, dunque, è ancor meno disposta a rischiare il benessere acquisito in cambio di un diverso sistema politico.

Tian An Men, 30 anni dopo, potrebbe essere proprio il simbolo di questa svolta: furono gli studenti di “BeiDa”, la più prestigiosa delle università della Repubblica Popolare, a contestare, discutere, scendere in piazza. Ma loro erano già la crema della futura classe dirigente, e dunque potevano permettersi il “lusso” di interpellare la politica e le istituzioni, nel contesto di un mondo che, tutto intero, si stava capovolgendo: Gorbaciov era segretario del Pcus, e 5 mesi dopo Tian An Men cadeva (9 novembre) il Muro a Berlino. Lo “Stato dei contadini e degli operai” forse rimase poco coinvolto dalla protesta – o ne fu tenuto all’oscuro.

I diritti umani brutalmente violati a Tian An Men pesano sulla coscienza dei dirigenti del Partito Comunista Cinese ma sono anche un fardello imbarazzante per l’Occidente:

che prima e dopo il 4 giugno 1989 ha continuato a fare affari con la “fabbrica del mondo” e che sempre più oggi deve valutare attentamente ogni passaggio della strategia cinese in tutti i campi decisivi dove si costruisce il futuro, dalla “via della seta” e delle nuove tecnologie alla penetrazione cinese nel cuore stesso dei sistemi occidentali: in Europa con gli acquisti “strategici” di imprese, in America con il mantenimento delle enormi quote di debito pubblico statunitense. I dazi americani (che stanno costando già abbastanza agli Usa) hanno innescato un meccanismo pericoloso di ritorsioni. Per fare un solo esempio, Pechino ha annunciato un giro di vite sul mercato delle “terre rare” (litio, cobalto, …), divenute componenti indispensabili per tutti i nostri prodotti tecnologici.

Per non parlare dell’Africa, abbandonata – con deboli eccezioni – dai Paesi ex coloniali europei e “raccattata” dalla Cina, che ci costruisce di tutto, dalle strade e ferrovie alle fabbriche di trasformazione delle materie prime; e che vende armi a tutti: il 68% degli eserciti dei Paesi africani ha in dotazione armi cinesi; dal 2000 l’export in questo settore è aumentato del 120% (“Avvenire”, 22 aprile 2018). ​

A Tian An Men, ha dichiarato il 2 giugno scorso a Singapore il ministro cinese della Difesa, la repressione fu necessaria proprio per garantire la sicurezza dello Stato. E l’Occidente deve continuare a interrogarsi su una frase magari molto enfatica ma anche inquietante, scritta in cinese e in inglese su un gigantesco tabellone all’ingresso della città di Juquan:

“Senza fretta, senza paura, conquistiamo il mondo”.

La evocò lo scrittore Simon Winchester, commentando così: “Dopo cinquemila anni di paziente attesa, di diligenti osservazioni e di studio, il momento per la Cina è arrivato” (S. Winchester, “L’uomo che amava la Cina”, Adelphi 2010).

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