Giovanna Pasqualin Traversa

“Aperti al Mab è la tappa di un percorso iniziato da tempo e mette in campo la straordinaria azione che da sempre caratterizza la Chiesa attraverso i propri istituti culturali – musei, archivi, biblioteche – diocesani ed ecclesiastici. La giornata odierna è un momento di incontro, confronto e dialogo; una sorta di consapevole uscita a vita pubblica di queste realtà che sempre più interagiscono tra loro con lo stile di comunione che appartiene alla Chiesa e con linguaggi nuovi e universali”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Lo dice mons. Stefano Russo, segretario generale della Cei e amministratore apostolico della diocesi di Fabriano-Matelica, già direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, a margine della Giornata in corso a Roma per inaugurare l’iniziativa nazionale “Aperti al Mab. Musei Archivi Biblioteche ecclesiastici” (3-9 giugno).

Il progetto, che punta a dare risalto al ruolo centrale svolto da ogni Istituto culturale nel proprio territorio a servizio della comunità, è promosso dal suddetto Ufficio Cei insieme all’Associazione musei ecclesiastici italiani (Amei), all’Associazione archivistica ecclesiastica (Aae) e all’Associazione dei bibliotecari ecclesiastici italiani (Abei), con il patrocinio del coordinamento Mab-Italia Musei Archivi Biblioteche e in collaborazione con l’International archives day e con le Giornate nazionali dei musei ecclesiastici. Aperti al Mab, prosegue il segretario generale della Cei, “non è solo un momento di incontro e di confronto; sono state molte le attività concentratesi attraverso il Mab in un disegno comune che dice la vivacità culturale di questi istituti – 1.684 – dietro i quali ci sono persone che si occupano di questo patrimonio in modo competente e lo leggono tentando di renderlo leggibile agli uomini del nostro tempo”. Che legame hanno i beni culturali con il territorio e la comunità civile? “Un rapporto fondamentale – risponde mons. Russo –. Si tratta di migliaia di documenti, volumi, reperti, opere d’arte disseminati in tutto il Paese, risalenti spesso all’inizio del cristianesimo e che raccontano la storia della nostra nazione e della Chiesa, una storia di bellezza”. “Per me – conclude –

il Mab è la Chiesa, da sempre apportatrice di bellezza perché chi incontra Cristo incontra il bello, in dialogo con il mondo contemporaneo”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

“Preceduta dalla Notte dei santuari, la settimana di Aperti al Mab si chiuderà con la Lunga notte delle chiese”, spiega don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, introducendo la sessione plenaria della Giornata. “Aperti al Mab – aggiunge – esprime attraverso iniziative, eventi e collaborazioni tra comunità la fierezza di un patrimonio che vuole mostrarsi e fare rete”. Di qui una battuta: “Le trecento iniziative registrate sulla sezione dedicata nella pagina di BeWeb non sono i muscoli del patrimonio della Chiesa, ma esprimono la volontà di

essere presenti, visibili, aprirsi sempre più tra loro e alla gente”.

Parole chiave comunicazione e narrazione, i temi dei due interventi della mattina.
E se comunicazione oggi fa rima con web, per meritare (o recuperare) fiducia nella comunicazione digitale occorre

“pensare alle nostre piattaforme in una logica di relazione, trasparenza, fiducia”

con lo sguardo attento “ai bisogni delle persone alle quali vogliamo rivolgerci”. Non ha dubbi Federico Badaloni, responsabile aree di Progettazione e grafica della divisione digitale Gruppo editoriale Gedi. Presupposto essenziale “guardare al web come a un fenomeno culturale, non tecnologico, un ambiente in cui vanno costantemente inscritti i nostri valori e che va ‘addomesticato’ e benedetto”. “Noi – avverte – comprendiamo la realtà attraverso le relazioni che siamo in grado di intessere”, perciò è essenziale “la fiducia che nasce dal dialogo”. Un dialogo fondato sulla testimonianza che richiede anzitutto “trasparenza”: nei processi di “produzione dell’informazione, nella selezione delle persone coinvolte, nella gestione dei propri errori e delle regole”. Relazione è anche “riscoprire i bisogni delle persone e delle comunità alle quali vogliamo rivolgerci”. E la parola chiave è “discernimento”.

Dalla comunicazione alla narrazione:

“La public history può restituire agli storici e alla storia un ruolo centrale nell’interpretazione della società contemporanea e costruire reti per promuovere il patrimonio culturale”,

sostiene Serge Noiret , presidente dell’Associazione italiana di public history (Aiph). Attraverso questa disciplina, spiega, “la storia si racconta e si comunica con e per ‘pubblici’ diversi”, le comunità valorizzano sul territorio “il loro patrimonio culturale” e “s’interrogano sulle loro identità collettive”. Verbo chiave, “fare”: “fare storia con e per il pubblico”, secondo i tratti caratteristici di ogni territorio per “proporre una storia utile nel presente, in grado di sviluppare una cultura civica e di partecipazione”. E questo grazie ai “public historian”, coloro che operano nelle istituzioni culturali (musei, archivi, biblioteche), nei media, nel turismo, nelle scuole, nel volontariato culturale e di promozione sociale. Ma anche “gli storici universitari” che interagiscono con pubblici esterni alla comunità accademica per fare “storia che si comunica ai cittadini”.

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