Nel percorso verso il Sinodo per l’Amazzonia (6 – 27 ottobre prossimo), la visione di una “Chiesa indigena” sta generando “resistenze e malintesi. Alcuni se ne sentono in qualche modo minacciati perché ritengono che non verranno rispettati i loro progetti” di colonizzazione della regione “animati a tutt’oggi da spirito di dominio e di rapina”. A sostenerlo è il card. Cláudio Hummes, arcivescovo emerito di San Paolo, nominato dal Pontefice relatore generale del Sinodo, in un’intervista rilasciata a p. Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, e pubblicata oggi sul sito della rivista. “Gli interessi economici e il paradigma tecnocratico – spiega il porporato – avversano qualsiasi tentativo di cambiamento e sono pronti a imporsi con la forza, violando i diritti fondamentali delle popolazioni nel territorio e le norme per la sostenibilità e la tutela dell’Amazzonia. Ma noi non dobbiamo arrenderci. Sarà necessario indignarsi. Non in modo violento, ma certamente in maniera decisa e profetica”. La Chiesa in Amazzonia, prosegue, “sa bene di dover essere profetica, non accomodante, perché la situazione è clamorosa e mostra una costante e persistente violazione dei diritti umani e una degradazione della casa comune. E, peggio ancora, questi crimini per lo più restano impuniti. La Chiesa dev’essere profetica”. Hummes invita quindi a coniugare inculturazione e interculturalità e a passare da una “Chiesa indigenista” a una “Chiesa indigena”. Sul profilo dei sacerdoti, per il cardinale non si potrà difendere “una sorta di figura storica” cui attenersi”, ma prevedere “ministeri differenziati”. “La Chiesa indigena – afferma – non si fa per decreto”. Con riferimento alla Laudato si’, Hummes respinge il “paradigma tecnocratico” della modernità e rilancia la necessità della “ecologia integrale” la cui dimensione più importante è il fatto che “Dio si è messo in relazione definitiva con questa terra in Gesù Cristo”. E conclude: “Bisogna pensare a un piano pastorale specifico per tutta la Panamazzonia”.

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