Bruno Desidera

Da ottobre l’emergenza non si è più fermata. Anzi, aumenta di giorno in giorno. Prima le carovane dei centroamericani. Poi i cubani. Ora anche tantissimi africani. Si trova oggi a Tapachula, la città del Chiapas quasi al confine con il Guatemala, il fronte migratorio più caldo in Messico. Forse ancora di più (anche se fare classifiche è arduo!) rispetto alle pure congestionatissime Tijuana e Ciudad Juárez, alla frontiera nord, quella con gli Usa. È il vescovo di Tapachula, mons. Jaime Calderón Calderón, a lanciare l’allarme attraverso il Sir, dopo averlo già fatto la scorsa settimana con un documento-appello sottoscritto insieme alla Conferenza episcopale messicana. Un allarme che non è certo, però, sinonimo di disimpegno: “Nella nostra azione ci facciamo guidare dal capitolo 25 del Vangelo di Matteo… ‘Ero straniero e mi avete accolto’. Dico sempre che questa situazione permette a noi cristiani di tirare fuori il meglio di noi”. Al tempo stesso, “dico che stiamo facendo tutto il possibile, ma che siamo sopraffatti da numeri troppo grandi per le nostre possibilità di accoglienza”.
Come abbiamo accennato, gli arrivi non si fermano mai. Erano un’abitudine da anni, ma a partire dallo scorso autunno la situazione è cambiata con l’organizzazione in carovane dei migranti centroamericani, soprattutto honduregni e salvadoregni. Poi, dall’inizio dell’anno, è ripresa una massiccia emigrazione di haitiani. Sono seguiti i cubani e gli africani.
Ma come arrivano in Messico questi “nuovi” migranti? “Vengono tutti dal Nicaragua, direttamente in autobus, per quaranta dollari”, spiega padre Sergio López Méndez, coordinatore della Pastorale della Comunicazione della diocesi di Tapachula. Il Paese centroamericano, infatti, dall’inizio dell’anno ha cambiato i criteri per la concessione dei visti. In particolare, Cuba è stata inclusa nella categoria migratoria B, che permette di ottenere un visto turistico senza attendere l’approvazione della Direzione generale della Migrazione di Managua. Così,

il Nicaragua è diventato il nuovo trampolino di lancio per i cubani che sognano di mettere piede negli Usa.

Ma anche molti migranti africani sono riusciti a utilizzare la nuova rotta.
L’altro problema che sta facendo scoppiare Tapachula è che qui molti migranti si bloccano. Gli africani stanno aspettando un salvacondotto dall’Istituto nazionale per le migrazioni. I cubani sono in attesa di poter proseguire nel loro cammino da sei mesi, molti centroamericani e cubani vengono rinchiusi nei centri di detenzione sorti in seguito al mutamento repentino delle politiche migratorie del Governo. Da cui spesso evadono. Con relativi problemi di ordine pubblico. Ma è lo stesso vescovo a spiegare cosa sta accadendo.

Mons. Calderón, Tapachula sta dunque scoppiando?
Va detto chiaramente. Stiamo vivendo una situazione di crisi umanitaria. Da ottobre il flusso è in continuo aumento e si aggiungono migranti di nuove nazioni e perfino di altri continenti. Per noi è una grande sfida. Stiamo cercando di fare tutto il possibile per alleviare le fatiche del cammino dei nostri fratelli migranti, per soccorrerli, ma realmente in questo momento siamo sopraffatti dalla situazione.

Come si articola concretamente l’azione della Chiesa, nella vostra diocesi?
Cerchiamo di fornire loro alimenti, bevande, per quanto possibile li ospitiamo nelle nostre case del migrante. Ora quella di Tapachula è gestita direttamente dalla diocesi, attraverso un gruppo di sacerdoti. Poi abbiamo una serie di centri d’accoglienza nelle parrocchie costiere, lungo la rotta che seguono i migranti, fino alla città di Arriaga, a 250 chilometri da qui. Il nostro è un territorio in prevalenza costiero, che si estende da sud a nord. Nelle parrocchie devo sottolineare il lavoro di tantissimi laici. Certo,

le nostre strutture erano sufficienti fino a ottobre, ora non più.

Proprio in questi giorni abbiamo fissato un incontro su questo tema con tutti i sacerdoti della diocesi.

Cosa chiedete alle autorità?
Come abbiamo scritto anche nel comunicato assieme alla Chiesa messicana, una maggiore attenzione. E una politica più chiara, che affronti il fenomeno nella sua complessità. La politica non era preparata a quanto è accaduto, ora mi pare che inizi a esserci più consapevolezza. E poi chiediamo che, almeno, siano rispettati i diritti fondamentali delle persone. Serve una politica aperta, di accoglienza, anche se non siamo ingenui e sappiamo che tra questa grande massa di persone ci può essere chi viene qui per delinquere.

Nel comunicato scritto insieme alla Cem sono stati denunciati casi di xenofobia. Si tratta di un fenomeno rilevante?
Preferisco mettere in risalto l’opera generosa di accoglienza di tantissime persone. Però sì, il fenomeno esiste, soprattutto nei social network. Sarebbe auspicabile che coloro che scrivono queste cose potessero incontrarsi realmente con questi stranieri, potessero ascoltare, come è capitato a me, le loro storie, le ragioni che li muovono. Scoprirebbero, come dice Papa Francesco, la carne di Cristo sofferente.

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