Bruno Desidera

È passato un anno. Il 18 aprile 2018 in Nicaragua iniziava un’ondata di proteste, già annunciate qualche giorno prima dalle prime agitazioni giovanili, che avrebbero fatto inizialmente traballare il governo di Daniel Ortega, che ha in seguito avviato una dura repressione, i cui effetti perdurano ancora oggi. 12 mesi dopo Ortega è ancora in sella e vari oppositori politici sono ancora in carcere, anche se martedì il Governo ha annunciato la scarcerazione e gli arresti domiciliari per oltre seicento detenuti, in occasione della Settimana Santa. Le manifestazioni, che pure sono state annunciate per questi giorni dall’opposizione, restano fuorilegge. Ieri una manifestazione prevista a Managua è stata subito repressa dalle forze di polizia. Nel mezzo, tra una data e l’altra, ci sono oltre 300 morti, migliaia di feriti, 62mila profughi (secondo gli ultimi dati forniti dall’Onu), fuggiti soprattutto in Costa Rica.
Ancora, scorrono i tanti eventi di questi dodici mesi, che hanno visto spesso protagonista la Chiesa cattolica, senza dubbio la prima autorità morale del Paese:

il primo tentativo di dare vita a un Dialogo nazionale, fallito per la durissima repressione governativa; la processione dei vescovi con l’ostensorio nella roccaforte ribelle di Masaya, che aveva temporaneamente evitato l’intervento dei paramilitari; l’aggressione delle milizie di Ortega al cardinale Augusto Brenes e al suo ausiliare, mons. Silvio José Baez: gli arresti e gli attacchi alla stampa libera; il progressivo peggioramento dell’economia.

Dialogo tra scarcerazioni e molte incognite. Nelle ultime settimane, un nuovo tentativo di dare vita a un Dialogo nazionale tra Governo e opposizione ha prodotto qualche fragile frutto: un primo accordo in diciotto punti, numerose scarcerazioni. Ma negli ultimi giorni tutto è tornato in alto mare, come ha denunciato l’opposizione di Alianza Civica. “Il Governo – denuncia al Sir Vilma Núñez, la presidente del Cenidh, il Centro nicaraguense per i diritti umani, organizzazione sciolta dall’Esecutivo lo scorso dicembre – non sta mantenendo gli impegni presi, a cominciare dalla liberazione di tutti i detenuti politici. Vale la pena di sottolineare che anche coloro che sono stati scarcerati sono comunque agli arresti domiciliari”.
In quest’anno il Cenidh ha seguito la situazione stilando periodici rapporti, l’ultimo dei qual risale a dicembre, prima dello scioglimento: “Il regime reprime un popolo completamente disarmato. La nostra organizzazione non governativa è stata arbitrariamente spogliata di qualsiasi personalità giuridica, dopo che la nostra sede era stata assaltata da agenti armati. Nel nostro ultimo rapporto, lo scorso dicembre, avevamo rilevato 323 morti, circa 2mila feriti, avevamo raccolto 5mila denunce di violazioni di diritti umani”.
Oggi, prosegue l’attivista sociale,

“il Nicaragua è un Paese militarizzato, forse l’unico al mondo che impedisce qualsiasi tipo di manifestazione pubblica.

Chiunque provi a marciare viene immediatamente fermato. E’ fondamentale tenere alto il livello della pressione internazionale, far sapere all’opinione pubblica che qui le cose non stanno affatto migliorando”.

Tra la gente prevale la sfiducia. Come accennato, in questi mesi, anche la Chiesa è stata spesso attaccata e perseguitata, nonostante Ortega avesse chiesto proprio alla Conferenza episcopale di svolgere, in occasione del primo Dialogo nazionale, il ruolo di coordinatrice e testimone. Quando, alcune settimane fa, il Dialogo è ripreso, la Conferenza episcopale (Cen) ha scelto di non parteciparvi, anche per alcune interferenze governative che avrebbero posto il veto su alcuni nominativi inizialmente individuati dalla Cen. E’ rimasto, invece, al tavolo il nunzio apostolico, mons. Waldemar Stanislaw Sommertag. La scorsa settimana, poi, è emersa la notizia che il regime aveva un piano per uccidere il vescovo ausiliare di Managua mons. Silvio Báez, e che il Papa ha chiesto al vescovo di trascorrere un prolungato periodo di tempo a Roma.
“Penso quella fatta dal Santo Padre sia una scelta ragionevole e prudente”, commenta da Managua padre Moisés Daniel Pérez, teologo, insegnante nel Seminario arcidiocesano, già collaboratore del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), attivo in vari ambiti pastorali. Prosegue il sacerdote:

“Tutti i giorni noi sacerdoti invitiamo a non perdere la speranza, ad avere fiducia nel Nunzio e nelle decisioni del Santo Padre, a confidare e a sperare, con animo puro. Questi sono tempi di unità, non possiamo disperderci”.

Il sacerdote, tuttavia, non nasconde che “in generale tra la popolazione c’è molta sfiducia sul negoziato in corso” e che da questo punto di vista la partenza di mons. Báez, è stata accolta con tristezza. Domenica scorsa molta gente gli ha reso omaggio in occasione della messa delle Palme. “La mia impressione è che, nonostante i divieti a manifestare, la rivolta potrebbe riaccendersi in qualsiasi momento”, conclude il sacerdote.
C’è attesa su quanto accadrà in questi giorni. E questo anniversario coincide con la Settimana Santa. “Nulla è stato cancellato, almeno al momento – prosegue padre Pérez – in particolare la processione del Venerdì Santo è sempre molto partecipata”. E conclude: “Sono convinto che l’unica via d’uscita per il Paese sia quella negoziata, ma ne vediamo anche le difficoltà. Penso che l’uscita di scena di Ortega si realizzerà, ma non sarà rapida. E restano importanti la pressione internazionale e quella interna”.

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