Riccardo Benotti

“Le diverse Congregazioni, nate con carismi specifici, devono relazionarsi tra loro per rispondere alla missione nella Chiesa e nel mondo di oggi. Nessuna Congregazione può fare fronte da sola a tutte le necessità della missione”. Parola di suor Yvonne Reungoat, superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice e presidente dell’Unione superiore maggiori d’Italia (Usmi), a conclusione della 66ª Assemblea nazionale che si è tenuta sul tema “Giovani e donne consacrate: distanza e prossimità. Passi comuni nel post-Sinodo”.

Lei si è soffermata a più riprese sulla sinodalità intercongregazionale. Perché?
Creare relazione tra le Congregazioni è segno di una Chiesa che è comunione dei carismi, ma non solo. È anche una forma di sinergia più contagiosa per la società, che ha tante difficoltà nel costruire relazioni tra persone e nazioni. Un’apertura intercongregazionale può essere un piccolo segno profetico. In Italia ci sono già alcune esperienze in Sicilia, dove si lavora assieme per l’accoglienza e l’accompagnamento dei migranti. Una comunità intercongregazionale che già deve fare esperienza di apertura tra i suoi membri, infatti, è anche più aperta ad accogliere coloro che arrivano da altri luoghi.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Ma può anche essere una risposta alla difficoltà organizzativa provocata dalla crisi di vocazioni?
Sì, ne abbiamo parlato tra di noi. La diminuzione delle vocazioni, soprattutto in Europa e in Italia, è un’esperienza di povertà nella vita religiosa. Questa debolezza aiuta ad aprirsi ai laici, dunque è un arricchimento. E può essere anche l’opportunità di cercare tra le Congregazioni di una medesima area il modo di rispondere al meglio alla missione riorganizzando le presenze. Non è facile realizzarlo, ma ne stiamo discutendo. Può essere un cammino di futuro importante, per non lasciare zone deserte. Potremmo condividere le risorse per organizzare le forze disponibili sul territorio.

Perché avete scelto di confrontarvi sui giovani?
Con il loro atteggiamento diretto e veritiero, i giovani ci hanno incoraggiate ad essere quello che dobbiamo essere: testimoni credibili e
gioiose di una vita interamente donata a Dio e ai fratelli. Abbiamo scelto di ascoltarli e abbiamo scoperto che la vita consacrata a volte è lontana per loro, e solo attraverso la relazione con alcuni consacrati o una comunità può avvenire la scoperta di questo mondo. E presentarsi anche l’occasione di fare un cammino di fede e di senso per la vita. Per i giovani è importante soprattutto l’incontro con persone consacrate.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Chi sono le giovani che entrano nelle case di formazione per diventare suore?
Sono giovani come le altre, con un’esperienza di fede più o meno consolidata, spesso attirate dalla chiamata del Signore grazie alla relazione instaurata con suore o sacerdoti che hanno incontrato sul cammino. Sono sensibili a un’esperienza spirituale profonda e attratte dal dono di sé per i più poveri, soprattutto in missione. E poi desiderano una vita di comunità, elemento imprescindibile nella vita vocazionale. Maturano il desiderio di vivere una fraternità che dia senso alla vita.

Eppure la vita comunitaria non è facile…
È difficile fare comunità, perché siamo tutti essere umani con le nostre debolezze. La comunità è un miracolo permanente. Vivere insieme, con età e culture diverse, non è automatico. Ma condividere la stessa fede aiuta a creare comunione. È un cammino di apertura continuo all’altro, al dialogo nella differenza. Ciò che aiuta a vivere la comunità è la presenza di Dio e il fatto di essere proiettati insieme verso una missione comune, più grande di noi. Aiuta a superare le difficoltà che possono esistere.

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