Patrizia Caiffa

Sono diminuite di un terzo le esecuzioni capitali nel mondo, il numero più basso in almeno un decennio: sono state 690 nel 2018, il 31% in meno rispetto alle 993 dell’anno precedente. E’ la buona notizia che emerge dal rapporto globale sulla pena di morte diffuso oggi da Amnesty International. Complessivamente i dati del 2018 mostrano che la pena di morte è stabilmente in declino e che in varie parti del mondo vengono prese iniziative per porre fine a questa punizione crudele e inumana. Alla fine del 2018 142 Stati avevano abolito la pena di morte per legge o nella prassi. Di questi, 106 erano abolizionisti totali. Dopo la modifica alla legislazione contro la droga, in Iran – dove comunque l’uso della pena di morte resta elevato – le esecuzioni sono diminuite addirittura del 50%. Una significativa riduzione delle esecuzioni è stata registrata anche in Iraq, Pakistan e Somalia. In controtendenza, invece, le esecuzioni sono aumentate in Bielorussia, Giappone, Singapore, Sud Sudan e Usa. La Thailandia ha eseguito la prima condanna a morte dal 2009 mentre il presidente dello Sri Lanka ha annunciato la ripresa delle esecuzioni dopo oltre 40 anni, pubblicando un bando per l’assunzione dei boia.  Con una decisione senza precedenti, le autorità del Vietnam hanno reso noti i dati sulla pena di morte: nel 2018 le esecuzioni sono state 85. I primi cinque Stati per numero di esecuzioni sono stati la Cina (migliaia), l’Iran (almeno 253), l’Arabia Saudita (149), il Vietnam (85) e l’Iraq (almeno 52). E ancora più di 19.000 persone sono detenute nei bracci della morte.

(Photo by Narayan Maharjan/Pacific Press/LightRocket via Getty Images)

Segnali positivi. Tra i segnali positivi, il Burkina Faso a giugno ha adottato un nuovo codice penale abolizionista. Rispettivamente a febbraio e a luglio, Gambia e Malaysia hanno annunciato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni. Negli Usa, a ottobre, la legge sulla pena di morte dello stato di Washington è stata dichiarata incostituzionale.

“La drastica diminuzione delle esecuzioni dimostra che persino gli Stati più riluttanti stanno iniziando a cambiare idea e a rendersi conto che la pena di morte non è la risposta”

ha dichiarato Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International”. A dicembre, nel corso dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 121 Stati (un numero senza precedenti) hanno votato a favore di una moratoria globale sulla pena di morte, cui si sono opposti solo 35 Stati.

La Cina ancora in testa per numero di esecuzioni. Nel 2018 la Cina è rimasta al primo posto per numero di esecuzioni, anche se il livello effettivo dell’uso della pena di morte è ignoto per il segreto di Stato. Amnesty International ritiene che migliaia di persone siano condannate alla pena capitale e messe a morte ogni anno. Ho Duy Hai, condannato per rapina e omicidio dopo essere stato costretto – secondo quanto ha dichiarato – a “confessare” sotto tortura, è stato condannato a morte nel 2008. Lo stress dell’attesa dell’esecuzione ha avuto effetti profondamente negativi sulla sua famiglia:  “Sono passati 11 anni da quando è stato arrestato e la nostra famiglia è a pezzi. Non ce la faccio più a sopportare questo dolore. Solo pensare a quanto mio figlio stia soffrendo in carcere mi annienta. Vorrei che la comunità internazionale ci aiutasse a far tornare unita la nostra famiglia. Siete la mia unica speranza!”, ha dichiarato sua madre, Nguyen Thi Loan.

Ancora troppe condanne a morte. Amnesty si è detta inoltre preoccupata per il notevole aumento delle condanne a morte emesse in alcuni Stati nel corso del 2018.

In Iraq il numero delle condanne è quadruplicato da almeno 65 nel 2017 ad almeno 271 nel 2018. In Egitto il totale è cresciuto di oltre il 75%,

da almeno 402 nel 2017 ad almeno 717 nel 2018, a causa dell’attitudine delle autorità egiziane di emettere condanne a morte in massa al termine di processi gravemente iniqui, basati su “confessioni” estorte con la tortura e nel corso di interrogatori di polizia irregolari. In Sudan si è riusciti ad evitare l’esecuzione di Noura Hussein, una giovane sudanese condannata a morte nel maggio 2018 per aver ucciso l’uomo che era stata costretta a sposare mentre cercava di stuprarla. Dopo uno scandalo mondiale, grazie anche alla campagna di Amnesty International, la condanna è stata commutata in cinque anni di carcere. Fu uno shock assoluto quando il giudice mi disse che ero stata condannata a morte – ha raccontato Noura Houssein -. Non avevo fatto nulla per meritare di morire. Non potevo credere a che livello d’ingiustizia fossimo arrivati, soprattutto contro le donne. Non avevo mai pensato di poter essere messa a morte fino a quel momento. La prima cosa cui pensai fu ‘Cosa provano le persone quando vengono messe a morte? Cosa fanno?’. La mia vicenda era decisamente drammatica in quel momento, la mia famiglia mi aveva ripudiato. Affrontavo quello shock completamente da sola”.

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