Don Gianni Anelli (23)

Di Floriana Palestini

DIOCESI – Facciamo i nostri migliori auguri di buon compleanno a Don Gianni Anelli. Lo ricordiamo pubblicando l’ultima intervista con lui realizzata.

In quale ambiente è germogliata la sua fede e la sua vocazione di sacerdote?
Nella storia della mia vocazione c’è un sacerdote, don Francesco Vittorio Massetti, nato a San Benedetto e compagno di università del beato Piergiorgio Frassati. Prima del seminario, Vittorio fu ingegnere meccanico, e grazie al padre dell’amico Piergiorgio venne assunto dalla Fiat, per cui si trovava in una condizione agiata; nonostante questo, col passare del tempo non si sentì più realizzato, non trovò più senso in quello che aveva costruito negli ultimi anni. Dunque, dando egli molta importanza a questo suo dissidio interiore, tra lo stupore di tutti i suoi colleghi un giorno si licenziò. Il vescovo qui a San Benedetto, mons. Ferri (ndr, Vescovo della diocesi di Ripatransone 1925 – 1946)lo ascoltò e lo aiutò spiritualmente a capire che la sua vocazione era il sacerdozio. Entrato nel seminario di Fano, il giovane Vittorio trovò però molte difficoltà perché non conosceva il latino e non aveva quel tipo di formazione.

Egli si mosse a vivere un sacerdozio in maniera particolarmente forte, tenendo a mente le parole e gli insegnamenti del beato Frassati, al quale deve la sua vocazione: don Vittorio desiderava un presbiterio unito attorno al vescovo, desiderava una fraternità sacerdotale, cosa che allora non esisteva e per cui egli soffriva molto. Successivamente, in seminario incontrò un giovane di Urbino, tale Ugo Bonazzoli, col quale condivideva l’idea di un’apertura filiale con il vescovo, come sta scritto nel vangelo: “Gesù li chiamò perché stessero con lui” (ndr, Mc 3,13-19).

Diventato sacerdote negli anni ‘30, don Vittorio rimase in seminario ad insegnare matematica e fisica. Tenendosi in contatto con don Bonazzoli ed essendo precaria la situazione dal punto di vista spirituale, poiché i sacerdoti erano isolati nelle parrocchie (sia per scarsità di mezzi di trasporti, di comunicazioni che di infrastrutture), buttarono giù un piccolo progetto, ma con lo scoppio della guerra lo dovettero mettere da parte, perché San Benedetto fu uno dei luoghi più colpiti e c’era tanta miseria. Poi don Vittorio venne chiamato a dirigere un pensionato universitario a Milano, accanto all’università Cattolica, dove poté stare vicino ai giovani universitari e condividere con loro una idea di chiesa nuova, in cui la fraternità sacerdotale doveva promuovere una corresponsabilità dei laici nella vita della chiesa stessa.

A motivo della gravi necessità provocate dalla guerra, don Vittorio faceva ritorno molto spesso a casa da Milano e nel vedere i bambini poveri sui gradini della stazione provava grande sofferenza: fu allora che insieme a don Bonazzoli e ad alcuni laici decise di dare vita al progetto che teneva nel cassetto, il progetto di una Chiesa nuova e più aperta alla fraternità, il progetto che prenderà il nome di Casa Santa Gemma.

L’aiuto che proponevano era diverso da quello di tante comunità religiose, ad esempio i Salesiani, poiché S. Gemma non nasceva da una congregazione religiosa, ma appunto da laici, che sentivano l’esigenza di aiutare gli altri con amore gratuito.

Lì è nata la mia vocazione. Ai miei tempi la cresima si faceva molto presto, a 8 anni, e stranamente i miei genitori mi chiesero chi volessi come padrino, cosa che allora non si usava perché non spettava ai bambini scegliere, e scelsi don Vittorio.

Quindi don Vittorio era una persona di famiglia.
Sì, eravamo dirimpettai, lui abitava nell’attuale casa S. Gemma e io abitavo dove si trova ora il palazzo del vescovo, e con i suoi parenti stavamo spesso insieme; io ancora mi domando il perché di questa scelta, perché questo sacerdote mi affascinava. Ho avuto la possibilità di ascoltarlo, perché egli stava preparando un gruppo di donne tra cui mia sorella la quale, giovanissima, aveva il permesso di uscire dopo cena per partecipare ai suoi incontri, e io andavo con lei. Non ricordo molto di quegli incontri, ero molto piccolo, avevo 8 o 9 anni, ma ci andavo volentieri.

S. Gemma è nata nel Natale del 1940: il vescovo diede a don Vittorio il permesso di celebrare la messa il giorno di Natale nella casa dove aveva accolto i primi 5 bambini, e io servii alla messa, ero il più piccolo; ricordo che quel giorno l’ho passato sempre lì dentro, a spiare la strana convivenza di queste persone.

Diventato grande, frequentavo spesso l’ambiente dei padri Sacramentini e andai in seminario da loro, a Bergamo; il 12 settembre del ‘43 ci mandarono a casa perché era scoppiata la guerra, e quando tornai trovai una nuova S. Gemma: c’erano due sacerdoti (due preti del posto poiché don Bonazzoli andò in guerra come cappellano militare e morì in Russia), tre seminaristi, due universitari che avevano lasciato l’università per iniziare il corso di teologia, alcuni laici; il vescovo aveva lasciato il palazzo vescovile a Ripatransone per venire a vivere con i due sacerdoti, dando inizio alla vicinanza tra lui e loro prima, tra sacerdoti e popolo poi.

Seguirono anni terribili sotto un certo aspetto, perché la guerra incalzava e qui si dovette sfollare verso i paesi dell’entroterra, il paese alto stesso fu molto colpito: la guerra fu l’occasione in cui S. Gemma si adoperò maggiormente perché molti bambini vennero abbandonati. Personalmente sono stato sempre aperto a questa esperienza, anche se questa in un primo momento fu condannata dalla chiesa: il vescovo infatti fu obbligato a rinunciare alla diocesi e i sacerdoti vennero fatti allontanare.

Con ciò volevo dire che la mia vocazione è nata in questo clima di fraternità e quindi di una vita sacerdotale vissuta molto vicino alla gente e ai loro problemi; i due sacerdoti di S. Gemma, pur essendosi trasferiti in Acquaviva, scendevano quasi quotidianamente a San Benedetto per fare assistenza spirituale e per interessarsi di ciò di cui aveva materialmente bisogno la comunità.

I suoi genitori, riguardo la sua scelta di vita, erano d’accordo?
Sì, da una parte contenti, dall’altra… Io andai in seminario molto presto e i miei genitori pensavano che fosse un po’ prematuro, ecco, ma la vocazione si matura piano piano; io ho avuto delle difficoltà da superare perché l’esperimento di S. Gemma fu disapprovato dopo due anni, non si sa perché. Allora ero seminarista e sono stato cacciato dal seminario due volte! La prima volta frequentavo la quinta ginnasio, e stetti fuori per 7-8 mesi; la seconda, il primo anno di teologia, volevano dimettermi definitivamente e farmi sostenere gli esami di maturità classica. Invece le cose sono andate diversamente ed ho potuto continuare il seminario a Viterbo.

Quale fu la sua prima esperienza in una parrocchia, dopo il seminario?
Dopo il seminario eravamo in tempi molto diversi da quelli di oggi, io dovetti andare due anni come viceparroco a Castignano: qui trovai una situazione abbastanza pesante, perché il parroco subì un intervento alla bocca a causa di un tumore. C’era tanto da fare e tutti si adoperavano per aiutare me e la parrocchia ad andare avanti, ma sono state annate belle, si viveva quel servizio con amore, senza nessuna ricompensa. Ciò che mi colpì di Castignano fu questa apertura della gente ad aiutare il sacerdote: ricordo che nell’ottobre dei 1943 ci fu un terremoto e la chiesa più importante ne risultò danneggiata. La chiesa ospitava una cripta molto antica, dove era venerato il simulacro della Madonna Addolorata e il parroco, nonostante la sua situazione precaria di salute, decise di restaurare la cripta, perché lo volevano anche i parrocchiani. Questi fecero un lavoro da professionisti, soprattutto i muratori, che dovettero ricostruire le colonne puntellando, restaurando i capitelli, concludendo tutto in un’annata e mezza, non di più. Fu un’esperienza molto bella.

Comunque S. Gemma si è salvata, perché era autonoma, dipendeva dai laici che senza essere ricompensati si prendevano cura dei molti bambini poveri e abbandonati a se stessi che vivevano a San Benedetto.
Non era una struttura che dipendeva dalla chiesa e fu vista come una cosa provvidenziale per la città.
Le persone che vi lavoravano lasciarono la propria vita, anche agiata, per seguire quella dei bambini, per cui quando ci fu la disapprovazione di questo progetto molti cristiani si tirarono indietro.

La chiesa quindi era in disaccordo con quest’opera.
E’ rimasta per un bel pezzo questa tensione, poi con la venuta del vescovo Radicioni (1952 – 1983), le cose sono cambiate, anzi egli avrebbe voluto fare anche molto di più ma c’era chi gli metteva il bastone fra le ruote. Inoltre, finché le persone stavano lì a fare un servizio gratuito si poteva andare avanti, quando invece è subentrato il riconoscimento legale della casa famiglia come cooperativa, da parte della gente si raffreddava la disponibilità ad aiutare per cui pian piano non è entrato più nessuno a offrirsi e i sacerdoti, arrivati ormai ad un’età avanzata, sono stati costretti ad assumere personale.

Il vescovo Bresciani sta pensando di venire incontro alle nuove forme di  povertà: oggi i bambini disagiati e con famiglie problematiche alle spalle non sono abbandonati, sono ben custoditi, hanno la possibilità di essere adottati o affidati. Col direttore della Caritas diocesana (ndr, don Umberto Silenzi) si stanno studiando dei progetti per questi tipi di povertà odierna.

Papa Francesco, inoltre, insiste che dobbiamo tornare a quello che era lo spirito iniziale tra i cristiani, che fu la novità che portò Gesù: l’amore gratuito. La fede si è affievolita perché l’amore si è spento non all’origine, non alla Fonte, ma nelle persone ed è subentrato un fattore che ha spento questa generosità.

All’inizio a S. Gemma c’erano i marchesi Guidi, una famiglia ricchissima, che ha aiutato molto la casa famiglia: la marchesa, senza figli, andava per aiutare a custodire i bambini piccoli.

Poi un vicesindaco fece la proposta in comune per dare alla casa di riposo e a S. Gemma un sostegno economico in base ai profitti del mercato del pesce all’ingrosso, uno tra i più quotati in Italia; per cui tra la gente piano piano è venuta a mancare la spontaneità nell’aiutare, convinti che avessero introiti sufficienti. Negli anni ’70-‘80 la presidente del tribunale dei minori in Ancona fu molto contraria all’esperienza di S. Gemma, poiché non voleva che le persone anziane avessero contatti con i bambini; allora coloro che avevano operato gratuitamente si dovettero ritirare in un piano del palazzo non avendo più rapporti con i bambini, e fu chiaro che per mandare avanti lo stabile bisognasse assumere personale.
Dapprima si assunse una donna per le pulizie e per lavare la biancheria, poi una cuoca, e da quando la casa è stata riaperta (nei primi anni del 2000), sono state assunte molte persone. Basti pensare che oggi il sabato e la domenica c’è un solo bambino, e per quel bambino ci sono 11 persone!

Riguardo la sua vita, c’è un’esperienza particolare che ha vissuto e che le andrebbe di raccontare?
Quattordici anni dopo l’ordinazione di sacerdote, mi venne affidata una parrocchia che nemmeno esisteva, tra Grottammare e San Benedetto, quella che poi sarebbe diventata la Gran Madre di Dio: negli anni ’70 vi erano circa 600 abitanti, sparsi per le varie campagne, e non c’era un centro dove potersi ritrovare; è stata una bellissima esperienza che sento ancora viva e forte dentro me: sono potuto stare a stretto contatto con le persone, in quanto non c’era nemmeno un locale per dire la messa, dovevamo affittare i garage.

Ci adoperammo molto in seguito per costruire la casa parrocchiale, ma tra le persone non c’era la mentalità di dare vita a una nuova parrocchia perché, come mi dissero un paio di famiglie ricche, “noi abbiamo le macchine, andiamo a Grottammare, a San Benedetto, non ci serve un’altra chiesa”. C’è stato un litigio quindi con i residenti soprattutto quando fu messa la prima pietra per la costruzione della chiesa: mettemmo una pergamena dentro la pietra, che in memoria di quel giorno recava la firma di tutti i capifamiglia, e ci fu chi si rifiutò di firmare perché pensava che a quella firma corrispondesse un impegno economico. Pian piano i lavori sono finiti e la chiesa è stata consacrata, dopo 8 anni, nel 1976.

Quindi è stata un’esperienza particolare, questa con le famiglie di Grottammare.
Sì, molto. Ricordo che quando feci venticinque anni di sacerdozio ospitai una comunità di Padova, una ventina di persone che tenevano occupata la casa parrocchiale: questi vollero organizzare la festa del mio 25esimo, non l’avessero mai fatto! Io dissi loro che quando dovevo organizzare qualcosa dovevo farmi il giro di tutte la famiglie e mi risposero: “Beh, lo faremo anche noi!”. Alcune famiglie furono d’accordo, moltissime li mandarono a quel paese (ride).

Fui molto fortunato a Grottammare perché al mio fianco avevo una vedova, la quale quasi gratuitamente reggeva la casa parrocchiale; è stata per molti ragazzi come una mamma, quando organizzavo il ritiro per i bambini della prima comunione lei preparava il pranzo per tutti. La sua presenza e il suo aiuto sono serviti molto per unire e per creare una collaborazione tra la parrocchia e le famiglie.

Quando mi affidarono due orfani, lei se ne prese cura tanto che li ha accompagnati fino al matrimonio; è così che io non sono stato mai solo, sempre circondato da persone: sono contento di ciò, anche perché da solo non saprei stare.

Ricordo che quando andai via dalla parrocchia feci il giro delle famiglie per salutare, e in una casa mi presi una ramanzina perché in occasione della prima comunione del bambino feci qualcosa per cui non ricordo nemmeno il motivo; covarono la rabbia per molto tempo, ma prima di andar via si aggiustò anche quella situazione.

E invece guardandosi indietro c’è qualcosa tra le famiglie o coi parrocchiani che avrebbe voluto cancellare o avrebbe fatto diversamente?
A Grottammare c’erano due famiglie che litigavano spesso, non si potevano proprio vedere, e mi dissero che se avessi trovato un locale per dire la messa vicino la casa di uno, l’altro non sarebbe venuto e viceversa. Il caso vuole che trovai il locale proprio in mezzo, in più il proprietario non era del posto, quindi non ci potevano essere situazioni di attrito; le due famiglie rivali rimasero a bocca aperta e nessuno ebbe il motivo per non venire. Questi piccoli litigi non li cancellerei mai, li ricordo con gioia perché fanno parte della mia vita e col tempo si è sempre risolto tutto.

D’altra parte, quando si va in un luogo a promuovere una vita insieme è logico che si incontrano degli ostacoli. Ad esempio, la vedova che mi aiutava incontrò lei per prima delle difficoltà, perché il fratello con cui viveva non vide di buon occhio la sua scelta di voler aiutare in parrocchia e non le parlò più, ma poi col tempo il loro rapporto si è aggiustato. La donna, da quando ha iniziato a seguirmi, non ha più venduto niente di ciò che coltivava nel suo orto, perché regalava tutto a noi.

Ricordo che una sera arrivò in parrocchia una ragazza drogata: questa vedova l’ha accolta, le ha preparato il letto, e io rimanevo stupito di fronte a ciò che era capace di fare, perché nessuno glielo aveva chiesto.

Un’altra volta invece, era l’ultimo dell’anno e alla nostra porta bussò un senzatetto che mi chiese di dormire sotto il porticato, ma era troppo freddo per dormire lì fuori e così, d’accordo con quelli che stavano con me, gli sistemammo una camera.

Sono stato contento perché tutte queste persone che sono passate vicino a me hanno imparato a guardare gli altri non con sospetto, ma cercando di accoglierle. E questa donna nel suo silenzio non faceva discorsi, non discuteva quando si trattava di accogliere. Per cui, non trovo niente da cancellare, ma tutto da ricordare.

C’è un aneddoto curioso o segreto, qualcosa che ricorda con piacere?
Un’estate, non ricordo che anno era, ci furono tanti acquazzoni che lì in zona si allagò tutto, emergeva solo la chiesa e la casa parrocchiale in un mare di detriti, c’erano tante di quelle zanzare che nella cucina il soffitto era nero! Noi ci ridevamo…  Nella chiesa c’era un seminterrato che in quei giorni si riempì di acqua e più la cacciavi più ne trovavi: io cercai di rimediare creando due pozzi con delle pompe che si mettevano in movimento con l’acqua, era una cosa semplice e ci arrangiammo.

Un suo pregio e un suo difetto?
Dunque, quando un sacerdote viene consacrato la prima cosa che il vescovo gli dice è che egli deve “presiedere”. Un tempo, tra le varie persone che ho ospitato, ci fu uno che mi disse: “don Gianni, a te manca il carisma della presidenza”, che è essenziale per il sacerdozio! Se si tratta di accogliere e prendersi cura delle persone sono in prima linea, ma per organizzare o promuovere eventi sono negato.

La mia fortuna è di non essere stato mai solo: a Castignano venni aiutato da un’altra vedova, che seguiva il parroco nella sua malattia, la quale aveva un piccolo terreno e lo faceva lavorare per la parrocchia. Per me, per i miei primi due anni di sacerdozio, è stata una bellissima esperienza perché in quella parrocchia le difficoltà si superavano insieme. Adesso che ho festeggiato 60 anni di sacerdozio qualcuno mi ha ringraziato…ma io penso di aver fatto più danno che altro! Non penso di avere un carisma particolare.

Ha avuto la percezione che ora sia cambiato il rapporto tra sacerdote e parrocchiani?
Beh sì, ciò che io non vedo oggi è la gratuità. Pensa ai campi scuola: oggi si va negli alberghi, ma una volta il campo scuola era il risultato di una fatica che iniziava molto tempo prima e finiva molto dopo. In un campo col paese alto il parroco di allora, don Filippo, doveva caricare un camion intero con letti, tavoli e tutto l’occorrente. Era una faticata, perché per caricarlo ci voleva una giornata e nonostante questo c’erano sempre molte persone intorno a lui ad offrire il loro aiuto gratuito.

I sacerdoti di oggi sono figli di questo tempo e sono abituati a disporre di certe cose, al mio tempo non avevamo niente, avevamo un bicicletta in tre. In campagna poi la gratuità era norma sempre, i lavori si facevano con lo scambio dell’opera, tu fai un favore a me e io lo faccio a te, l’unico compenso era il mangiare un tantino bene in quelle circostanze. Quando si ammalava qualcuno era scontato che il vicino andasse a fare dei favori al suo posto nella sua terra e non c’erano nemmeno le serrature sulle porte.

Il benessere e la disponibilità economica hanno aumentato la competizione tra fratelli ed oggi c’è l’idea per cui non c’è più niente di gratuito.

L’altro giorno, mentre parlavo col vescovo del recupero di S. Gemma, gli ricordavo di non dimenticare di fare appello alla gratuità che è la specialità di Gesù: Dio è gratuito, la nostra salvezza è un dono gratuito; San Paolo quando presenta Gesù lo presenta come colui che nella gratuità si è umiliato. Oggi tutto questo costituisce una grande difficoltà, il dono è diventato un segno convenzionale, è tutto un po’ programmato, ma una volta c’era chi sapeva donare perché capiva cosa mancava a chi gli stava accanto.

Per concludere vorrebbe dire qualcosa ai lettori?
Ringrazio te per il coraggio che hai avuto! Chissà cosa avresti potuto trovare…a me piace dialogare con gli altri. E’ un modo di esprimere il mio rapporto in Cristo. “Guardate come si amano”, dicevano i pagani quando osservavano la vita cristiana: è importante che questo ritorni, il cristianesimo deve tornare “affascinante”, come lo è stato all’inizio.

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