Daniele Rocchi

Due sberle, una da Ankara e l’altra da Istanbul: sorpresa doppia alle elezioni amministrative di domenica 31 marzo in Turchia dove il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan, Akp, ha perso le due più grandi città del Paese, passate al partito socialdemocratico Chp, con i suoi volti emergenti, Ekrem Imamoglu eletto sindaco di Istanbul e Mansur Yavas, nuovo primo cittadino di Ankara. La perdita della città sul Bosforo assume un significato particolare poiché è qui che Erdogan ha cominciato la sua carriera politica come sindaco. Il Chp vince, come previsto, a Smirne. L’Opposizione strappa alla Coalizione di Governo anche il centro industriale di Adana e la località turistica di Antalya, quest’ultime due storiche roccaforti della destra islamica e nazionalista. Un successo al fotofinish, quello dell’Opposizione laica del Chp, contestato da Erdogan che ha annunciato ricorso alla Commissione elettorale suprema di Ankara (Ysk). Tuttavia lo stop nella capitale e a Istanbul è stato mitigato in qualche modo dall’affermazione complessiva della compagine di Governo (Akp e alleati nazionalisti) che ha conquistato il 56% dei comuni, restando, sul piano nazionale, sopra il 50%, con l’Akp primo partito con circa il 45% dei consensi. L’opposizione si avvicina al 40%. Del voto turco ne abbiamo parlato con Alberto Gasparetto, dottore di ricerca in Scienza politica e relazioni internazionali all’Università di Padova e autore di una monografia dal titolo “La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente. Iran, Iraq, Israele e Siria” (Carocci, 2017).

Siamo davanti ad una svolta nella politica turca?
Quelli usciti dalle urne sono risultati importanti. Le sconfitte a Istanbul e nella capitale pesano molto anche in chiave simbolica. Se siamo davanti ad una svolta dipenderà anche dagli attori internazionali, come Ue e Usa, e da come questi vorranno porsi rispetto al voto. La coalizione dell’Akp insieme ai nazionalisti, è bene ricordarlo, ha tenuto nel Paese attestandosi sopra il 50%.

Istanbul, con Ankara e Smirne, tutte in mano all’opposizione, da sole fanno quasi la metà del Pil turco. Quanto ha pesato la crisi economica sul risultato elettorale?
L’economia è il fattore determinante della politica turca almeno dagli anni ’80, da quando cioè entrò nel mercato internazionale. Negli ultimi 15 anni, con Erdogan, il Paese è cresciuto sensibilmente. Le notevoli performance in campo economico hanno contribuito a rafforzarlo. Da tre anni, complice la crisi economica, le cose non sono andate più bene. Anche per questo motivo Erdogan aveva anticipato di un anno il voto presidenziale, al giugno del 2018, riuscendo così a restare in carica fino al 2023. I dati economici turchi oggi parlano di un’inflazione al 20%, la disoccupazione a oltre il 13%. Il tasso di crescita del 2018 si è fermato al 2,6% dopo il 7,4% del 2017. I prezzi dei beni primari sono aumentati con gravi ripercussioni sulle tasche dei cittadini che con il voto hanno chiesto un cambiamento di passo.

Erdogan, politico furbo e scaltro, sa che dovrà cambiare qualcosa nella sua politica economica.

Quali decisioni adotterà è presto per dirlo. La crescita economica della Turchia da sedici anni a questa parte è stata sostenuta dagli investimenti esteri, il 75% dall’Ue e dalle banche europee, il 15% dagli Usa e il resto da Asia e Paesi arabi. Un fattore che Erdogan dovrà tenere bene in conto nel pianificare le riforme necessarie.

Le urne ci consegnano l’immagine di una Turchia spaccata: da una parte le aree più urbanizzate e progredite del paese, Ankara e Istanbul in testa e dall’altra le zone rurali dove il partito di Erdogan ha tenuto maggiormente. È una foto reale del Paese?
Indubbiamente ci sono diverse fratture, quella storica e molto complessa tra islamisti e laici, quella tra nazionalisti e altre identità, come i curdi. Nelle zone rurali Erdogan ancora riesce a riscuotere consensi giocando sui sentimenti conservatori delle persone.

Nelle aree più ricche e progredite la popolazione, oltre a guardare le cattive performance economiche, mostra di non gradire la svolta verso l’autoritarismo del regime dopo tutte le riforme attuate, prima fra tutte quella varata nell’aprile del 2017 che ha abolito la carica di primo ministro accentrando il potere esecutivo, e per certi versi anche giudiziario, nelle mani del presidente.

Inoltre Erdogan ha estromesso dal suo partito numerosi esponenti di spicco dando spazio ai suoi sodali.

“Una vittoria della democrazia”: così il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu, ha definito l’esito del voto. Un modo per ribadire la forza dell’Opposizione nel panorama politico turco nonostante gli arresti dopo il golpe fallito del 2016…
Qui siamo sul piano della dialettica e della retorica politica. Certamente era difficile prevedere tali esiti elettorali e soprattutto una così alta affluenza, 84% dei votanti. A prescindere dalla natura autoritaria che il regime ha assunto in questi anni, occupando i media e silenziando le opposizioni carcerandone i leader, una vivacità democratica c’è sempre stata.

Non siamo in un regime democratico ma in un regime che ha una sua vitalità democratica in cui le opposizioni sono ancora in grado di mobilitarsi e portare al voto tante persone come Istanbul e Ankara hanno dimostrato.

E come hanno dimostrato anche i risultati nel sud-est curdo, una tra le aree più delicate politicamente più depresse al livello sociale ed economico. Qui il partito curdo Hdp è risultato vincitore in molti comuni, compresa la loro capitale Diyarbakir, commissariata dal Governo perché accusata di terrorismo per presunti legami con il Pkk, il partito curdo dei lavoratori.

Quali scenari potrebbero aprirsi ora per Erdogan e la Turchia? Il Presidente ha convocato le prossime elezioni fra 4 anni e mezzo, nel 2023. È un tempo sufficiente per dare le risposte che il Paese si attende?
Difficile formulare scenari futuri. Credo che Erdogan abbia davanti due opzioni: la prima è continuare a spingere l’acceleratore sull’autoritarismo e sulla repressione dell’opposizione. Ma credo che sia una scommessa fallimentare dal momento che è difficile prevedere la risposta popolare e la reazione dei partner occidentali e degli Usa. La Turchia è pur sempre un membro della Nato. La seconda è quella di cercare di interpretare questi due ceffoni di Istanbul e Ankara e varare riforme economiche. Un processo nel quale, io spero, possa avere un ruolo l’Ue che in questi anni si è nascosta dietro lo spauracchio dell’islamofobia e dell’islamizzazione.

L’Ue deve spingere Erdogan a intraprendere anche riforme politiche, chiedendo in primis il rispetto dei diritti umani.

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