Michele Falabretti

L’esperienza del Sinodo ha sollevato domande su come tenere viva l’esperienza generativa della fede cristiana. I giovani rappresentano la possibilità di consegnare qualcosa di sé. Per questo il Sinodo (nel suo percorso) è stato promessa di speranza: soprattutto che si possa dare risposta a ciò che talvolta ci mette in ansia, come la fatica di interagire con la cultura contemporanea nella quale i giovani stanno crescendo.

Gli snodi culturali di questo tempo (che loro sanno intercettare prima e talvolta meglio degli adulti) suonano estranei a ciò che consideriamo essenziali alla vita di fede; ma se non vogliamo tradire il principio di incarnazione non possiamo né ignorarli, né considerarli in eterno contrasto con le istanze della fede stessa.

Il Sinodo, dunque, ha messo i giovani al centro: la fede (per quanto ferma nei suoi contenuti) non può essere immutabile nelle forme, che saranno necessariamente storiche. In un tempo così frammentato, tentare di ridurla a poche norme significa renderla inefficace oltre che impoverirla. Le domande su come consegnare il Vangelo ai giovani di questo tempo, mostrano il bisogno di considerare questo compito come un’impresa comune.

L’Esortazione apostolica al termine di un Sinodo è la parola del Papa che riprende il dibattito del cammino sinodale, sottolineando ciò che ha colpito il suo cuore di padre e rilanciando alcuni temi che ritiene particolarmente significativi. Le parole del Sinodo arrivano così al termine, mentre si apre il tempo della sua attuazione.

Colpisce, in particolare, che questa volta Papa Francesco abbia deciso di rivolgersi in modo particolare ai giovani cristiani, pur senza escludere il resto del popolo di Dio – cioè gli adulti. Evidentemente li sta trattando come parte della comunità e nello stesso tempo accetta il gioco delle generazioni che è vecchio come il mondo. Da sempre i giovani si collocano quasi naturalmente in antitesi agli adulti. Questo rende arduo il compito degli adulti e permette ai giovani di far emergere le domande più importanti, mentre costruiscono le proprie biografie. Proprio come è accaduto ad ogni adulto di questo mondo, dal quale è lecito aspettarsi una comprensione dei più piccoli, un atteggiamento di ascolto e di cura amorevole.

Cristo vive (Christus vivit): la più profonda delle verità cristiane, il cuore del Vangelo, è messo nelle prime due parole che tradizionalmente diventano il titolo della lettera. Alla consegna del documento preparatorio (gennaio 2017) ci fu chi fece la corsa a sottolinearne la scarsità di contenuti (come se istruire un lavoro di condivisione, fosse subito chiudere la serratura con le verità di fede).

Mi pare molto evangelico accettare di compiere un cammino di accompagnamento e attendere il tempo opportuno per l’annuncio. Perché la pazienza e il rispetto della libertà dell’altro è già un annuncio.

Credo sia giusto mettersi in ascolto delle parole che il Papa ci consegna con questa esortazione, per non chiudere troppo frettolosamente il discernimento: quello che dovrebbe fare ciascuno su se stesso, prima di pretendere che lo facciano gli altri.

Più che commentare il Papa, operazione che ritengo presuntuosa, mi pare importante dedicarsi alla lettura del testo. Con il cuore libero: dalle paure rispetto a questo tempo, perché anche oggi il Signore parla (lo disse Isaia al popolo in un contesto non facile – Is 55, 6); libero dalle incertezze rispetto ai giovani, perché anche in essi c’è il sigillo della creazione e anche nel loro cuore c’è il soffio dello Spirito; libero dai pregiudizi che nascondono le fragilità attorno alle quali ci illudiamo di costruire fortezze inattaccabili.

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