Massimo Naro

Da un po’ di tempo si parla nuovamente di un Sinodo “della Chiesa italiana”, espressione che fa arricciare il naso a qualche purista dell’ecclesiologia. Se n’era già parlato nel novembre 2015, all’indomani del quinto Convegno ecclesiale nazionale svoltosi a Firenze, per segnalare il bisogno di una svolta metodologica a quanto pare suggerita da Papa Francesco in persona. Qualcuno, oggi, osserva che il discorso dovrebbe piuttosto impiantarsi attorno alla questione della sinodalità, che rappresenta l’atmosfera al di fuori della quale ogni Sinodo – diocesano o nazionale – resta improbabile.

Non è agevole comprendere il discrimine che passa tra la sinodalità e un Sinodo: si rischia di presumere che, a confronto con lo spessore concreto di questo, quella appaia semplicemente un concetto astratto.

Le facoltà teologiche italiane si riuniranno a Padova, il prossimo 12 aprile, per discuterne a partire da un titolo accattivante: Una Chiesa di fratelli e sorelle che camminano e decidono insieme.

D’altra parte, il Vaticano II e la riflessione teologica post-conciliare hanno messo l’accento soprattutto sulla collegialità episcopale, lasciando in ombra il tema della sinodalità. Non è un caso che, se si sfoglia l’indice analitico che correda il primo volume dell’Enchiridion vaticanum, in cui sono pubblicati i documenti del Concilio, vi si rintracci il lemma “collegialità (dei vescovi)”, ma non il lemma “sinodalità” (vi si trova solo il lemma “Sinodi”). La collegialità è tema che riguarda i rapporti tra i vescovi, la loro comunione e collaborazione, la loro stessa identità gerarchica: ogni vescovo è tale perché si incardina nel collegio episcopale. E questo vale pure per il vescovo di Roma, anche nella sua qualità e funzione di Papa: il collegio è pensato in riferimento al Papa, e viceversa. L’enfasi sul tema della collegialità ha ammortizzato le rivendicazioni del moderno conciliarismo e ha ammodernato l’antica ecclesiologia del cum et sub Petro.

In ogni caso, l’attenzione verso la collegialità è stata maggiore di quella concessa alla sinodalità, che è rimasta appiattita e assorbita nella stessa collegialità.

Non per niente dal Concilio è sortito l’istituto del Sinodo permanente dei vescovi, chiamati a pronunciarsi di volta in volta sui problemi che riguardano – nella Chiesa – tutti gli altri battezzati, dai laici ai consacrati nello stato religioso, dalle famiglie ai giovani.

La sinodalità vuol dire qualcos’altro rispetto alla collegialità. L’aggettivo che le corrisponde è “ecclesiale”, mentre la collegialità rimane un fatto “episcopale”. Perciò la sinodalità ha un respiro largo e complesso. Scaturisce dal crogiuolo dei rapporti che costituiscono ciascuna Chiesa locale in se stessa e in relazione alle altre Chiese particolari.

In tale orizzonte l’episcopato non si ritrova situato a parte né al di sopra delle altre componenti da cui la Chiesa è di fatto formata, compresi i movimenti e le associazioni laicali che coltivano intuizioni carismatiche, sensibilità spirituali, orientamenti culturali, attitudini sociali, persino progetti economici e visioni politiche differenti. Da questo punto di vista,

il contrassegno della sinodalità è il pluralismo.

La Chiesa veramente sinodale è sinfonica – “poliedrica” si legge nell’esortazione Evangelii gaudium, che il Papa a Firenze non a caso ha chiesto di approfondire “in modo sinodale” -, valorizza le distinzioni ma non ammette distanze.

La sinodalità significa – inoltre – convenire insieme, muoversi di concerto, fare ciascuno la propria parte nella comunità e per la comunità. Preferisco usare qui queste voci verbali che hanno a che fare col camminare in gruppo, perché l’etimo greco del termine sinodalità lo esige. Ma si potrebbe anche dire che la sinodalità ecclesiale obbedisce alla sintassi agapico-trinitaria che regola la vita della Chiesa. La sintassi divina, difatti, fa sì che ognuno dei Tre della Trinità – cioè il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo – occupi una propria posizione affinché anche gli altri due stiano al loro giusto posto: vale a dire che sia se stesso in virtù di ciò che gli altri due sono. Ciò è vero anche per il Padre, che è il Principio da cui il Figlio è generato e lo Spirito viene emanato: senza di loro egli non sarebbe il Padre, non sarebbe il Principio. Il collante di questa loro interrelazione o, più precisamente, il motivo di questo loro peculiare stare l’uno in rapporto con l’altro, è l’amore, l’agape appunto. Che, perciò, si rivela come la regola d’oro in base alla quale ciascuno è se stesso se mette gli altri in condizione di essere a loro volta sé stessi. La sinodalità traduce (dovrebbe tradurre) nei fatti questa sintassi, facendo diventare ortoprassi pastorale l’ortodossia teologica.

Sottolineando l’urgenza di questa sintassi, non voglio negare che abbia importanza anche la realizzazione materiale di un Sinodo. Ma questa potrà darsi solo quando si vivrà la sinodalità.

Se la sinodalità non diventa un’abitudine ecclesiale (un modo di relazionarsi nella Chiesa e della Chiesa, dato che habitudo in latino significa proprio “relazione”) la programmazione di qualsivoglia Sinodo è destinata a rimanere al di sotto delle aspettative.

Un “problema” su cui, comunque, dibattere in un eventuale Sinodo “delle Chiese che sono in Italia” potrebbe essere quello dell’opinione pubblica ecclesiale, vero e proprio luogo del confronto comunitario, palestra in cui il dialogo (su cui il Papa insisteva nel suo discorso a Firenze) si concretizza nel saper ascoltare e nel saper parlare, per spiegare al meglio la propria visione delle cose ma anche per capire appieno l’altrui posizione e per sperimentare finanche il dissenso non come minaccia ma come risorsa, non come arma ma come strumento di collaborazione. Sarebbe una buona via per puntare all’effettiva sinodalità.

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