Irene Argentiero

“Signore Gesù, metto nelle tue mani il tuo paese, il Nicaragua, particolarmente Leon. Non lo abbandonare. Mandaci la pace. Non si è mai sentito che tu abbia abbandonato qualcuno, aiuta Leon, aiutaci a vincere il male”.
Queste le ultime parole che Sandor Dolmus ha postato su facebook, pochi giorni prima di venire ucciso, il 14 giugno 2018. Sandor ed era un giovane ministrante. Stava camminando per strada, insieme ad altri ragazzi, vicino alla chiesa di San José, nella zona di Zaragoza, a Leon, quando è stato raggiunto da un colpo d’arma da fuoco al petto. A sparare è stato un gruppo di paramilitari. Chi lo ha conosciuto lo descrive come un ragazzo molto buono, attento agli altri, che desiderava diventare sacerdote. Non ha fatto in tempo a diventarlo. È stato sepolto con la veste dei ministranti. Sandor aveva 15 anni.
Si chiamava Gérard Anjiangwe. Aveva 19 ed era un seminarista della diocesi di Bamenda, in Camerun. Il 4 ottobre dello scorso anno, di fronte alla chiesa parrocchiale di S. Teresa di Bamessing, un villaggio nei pressi di Ndop nel dipartimento di Ngo-Ketunjia, nel nord-ovest del Camerun. Era da poco terminata la messa, quando attorno alle 9.30 del mattino, mentre Gérard e i fedeli si trovavano di fronte alla chiesa, è arrivato un camion militare proveniente da Ndop. Alcuni soldati sono saltati giù dal mezzo e hanno iniziato a sparare all’impazzata sulla folla. I fedeli si sono rifugiati subito in sagrestia, sbarrando la porta. Gérard non ce l’ha fatta. Si è sdraiato a terra, fingendosi morto e ha iniziato a recitare il rosario. Non riuscendo ad entrare in sagrestia, i militari si sono avvicinati al giovane e gli hanno ordinato di alzarsi. Il giovane, esitando, ha risposto all’ordine. Dopo averlo interrogato, i militari hanno ordinato a Gérard di inginocchiarsi di nuovo e poi hanno eseguito quell’improvvisata sentenza di morte. Tre colpi al collo e Gérard è molto all’istante.

Il triste primato dell’Africa. Sandor e Gérard sono i due missionari più giovani tra i 40 che sono stati uccisi nel corso del 2018. Quaranta vite spezzate. Quasi il doppio rispetto ai 23 dell’anno precedente. Tra loro 35 sono sacerdoti. Per otto anni consecutivi il più alto numero di missionari uccisi è stato registrato in America.

Lo scorso anno è stata l’Africa a conquistare questo triste primato.

In base ai dati raccolti dall’Agenzia Fides, in Africa sono stati uccisi 19 sacerdoti, un seminarista e una laica (21 persone). In America sono stati uccisi 12 sacerdoti e 3 laici (15) e in Asia sono stati uccisi 3 sacerdoti. Un missionario martire è stato ucciso anche in Europa. “Usiamo il termine “missionario” – spiegano all’agenzia Fides – per tutti i battezzati impegnati nella vita della Chiesa, morti in modo violento. Molti missionari hanno perso la vita durante tentativi di rapina o di furto, compiuti anche con ferocia, in contesti sociali di povertà, di degrado, dove la violenza è regola di vita, l’autorità dello stato latita o è indebolita dalla corruzione e dai compromessi, o dove la religione viene strumentalizzata per altri fini. Ad ogni latitudine sacerdoti, religiose e laici condividono con la gente comune la stessa vita quotidiana, portando la loro testimonianza evangelica di amore e di servizio per tutti, come segno di speranza e di pace, cercando di alleviare le sofferenze dei più deboli e alzando la voce in difesa dei loro diritti calpestati, denunciando il male e l’ingiustizia”. Persone che, consapevoli dei rischi che correvano, per rimanere fedeli a Dio e alla missione che avevano, sono rimasti al loro posto, a rischio della propria vita.

“Per amore del mio popolo non tacerò”. “Per amore del mio popolo non tacerò”. È questo il tema scelto per la 27esima Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, che la Chiesa celebra domenica prossima, 24 marzo. Il tema prende ispirazione dalla testimonianza di Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador di cui domenica ricorre il 39.mo anniversario della morte. Durante la messa di canonizzazione, presieduta in piazza San Pietro lo scorso 14 ottobre, Papa Francesco ha ricordato che “mons. Romero ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli”.

“Mons. Romero – ricorda p. Giulio Albanese – ha dato la propria vita per la causa del Regno, proponendo un modo diverso, per certi versi “rivoluzionario”, di vivere il messaggio evangelico nella realtà concreta latinoamericana.

E se da una parte è vero che questo coraggioso pastore sperimentò incomprensioni a non finire – in vita, ma anche dopo la morte – dall’altra, proprio in forza della sua indiscussa fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, si fece povero per i poveri”. Albanese ricorda come mons. Romero “si espresse sempre con libertà e franchezza evangelica, affermando la “parresia”, il coraggio di osare, come attestano le famose prediche domenicali alla messa delle otto, nelle quali, dopo aver commentato le Scritture, ne confrontava gli insegnamenti con la situazione del suo Paese. Questa osmosi tra Parola di Dio e la vita del popolo è stata la principale caratteristica del suo modo di attualizzare la Buona Notizia: “Non stiamo parlando alle stelle”, amava ripetere”.

Thérese e il sogno di entrare in convento. Osmosi tra Parola di Dio e la vita della gente. È quanto ritroviamo nella storia di Thérese Deshade Kapangala (Repubblica Democratica del Congo), unica donna che compare nell’elenco stilato da Fides.

Thérese aveva 24 anni e si apprestava ad iniziare il suo cammino di postulante tra le suore della Sacra Famiglia.

È stata uccisa domenica 21 gennaio 2018, durante un violenta repressione dei militari intenti a stroncare le proteste promosse dai laici cattolici in tutto il Paese contro le decisioni del presidente Kabila. Thérese cantava nel coro della parrocchia ed era attiva nella Legio Mariae. Quella domenica era a Kintambo, centro a nord di Kinshasa. Aveva appena partecipato alla messa, e – nel salmo che la liturgia proponeva quel giorno – aveva chiesto ancora una volta al Signore di farle conoscere le sue vie, di insegnarle i suoi sentieri. Finita la messa, partecipa con altri laici a una marcia di protesta. L’esercito, schierato fuori dalla chiesa, ha aperto il fuoco contro i manifestanti, che hanno cercato subito riparo rientrando in chiesa. Thérese non ce l’ha fatta. È stata colpita mentre cercava di proteggere una bambina con il suo corpo. Quella domenica, insieme a Thérese, sono molte almeno altre quattro persone, 57 sono rimaste ferite e oltre cento sono state arrestate.

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