Stefano De Martis

Il 22% dei lavoratori del settore privato ha una retribuzione oraria lorda inferiore ai 9 euro. Fanno eccezione il settore agricolo, in cui la quota arriva al 38%, e quello domestico, in cui quasi tutti i livelli di inquadramento prevedono un salario orario inferiore. E’ stato l’Inps a fornire questi dati nell’audizione presso la Commissione lavoro del Senato, dove sono in discussione i disegni di legge che riguardano l’introduzione del salario orario minimo. La soglia dei 9 euro lordi è quella indicata nella proposta del M5S, i 9 euro (ma netti) tornano anche nelle proposte presentate dal Pd, sia al Senato che alla Camera, mentre Liberi e uguali e Fratelli d’Italia individuano il minimo nel 50% del salario medio, corretto da un fattore di proporzionalità regionale.
Il tema del giusto salario è in tutta evidenza una questione di enorme rilevanza sociale e il ventaglio di proposte presentate dai partiti, pur con le reciproche differenze, rivela che in Parlamento ci sarebbe almeno sulla carta una maggioranza disposta a farsene carico. Ma quella del salario minimo fissato per legge è davvero la via giusta per arrivare a una retribuzione dignitosa per tutti i lavoratori? Il punto tecnicamente cruciale è che, oggi,

il minimo tabellare è soltanto uno degli elementi delle retribuzioni, che hanno incorporato molte altre voci e garanzie.

E questo è il risultato di un sistema in cui la presenza di sindacati forti ha consentito una contrattazione collettiva che copre la stragrande maggioranza dei lavoratori e ha una portata ben superiore a quella della maggior parte degli altri Paesi europei, in cui la presenza di un salario minimo finisce anche per supplire alla debolezza contrattuale.
Non è un caso che, per questo specifico aspetto, nelle audizioni in Senato la Confindustria e i sindacati confederali abbiano messo in campo argomentazioni in buona sostanza sovrapponibili. E’ necessario “definire correttamente il rapporto tra il salario minimo legale e il sistema della contrattazione collettiva esistente”, dato che “il perimetro delle garanzie” previste dai contratti “è ben più esteso del mero trattamento economico minimo”, ha detto il rappresentante dell’organizzazione degli imprenditori, Pierangelo Albini. Bisogna quindi evitare – ha aggiunto – che l’introduzione del minimo legale determini “il fenomeno della cosiddetta ‘fuga’ dal contratto collettivo”. “Le attuali retribuzioni dei lavoratori italiani – si legge nella nota congiunta di Cgil, Cisl e Uil – non sono costituite meramente dai minimi orari ma sono composte da più voci retributive (13ma e in alcuni casi 14ma mensilità, dinamiche retributive dei livelli di inquadramento, maggiorazione per prestazioni orarie o di altro tipo, ferie, indennità, EDR e altri voci e premi retributivi di carattere nazionale) e da ulteriori tutele che risultano essere sostanziali e fondamentali per un dignitoso rapporto di lavoro (riduzioni di orario contrattuali, tutele per malattia, maternità, infortuni superiori a quelle di legge, erogazione di un welfare previdenziale e sanitario diffuso e significativo)”. A fronte di questo,

secondo i sindacati confederali, con l’introduzione di un salario minimo legale si rischia che “un numero non marginale di aziende possano disapplicare il contratto collettivo nazionale di riferimento (semplicemente non aderendo a nessuna associazione di categoria), per adottare il solo salario minimo e mantenere ad personam o con contrattazione individuale, i differenziali a livello retributivo, senza erogare né il salario accessorio né rispettare le tutele normative” garantite dal contratto collettivo.

Per Cgil, Cisl e Uil il “vero problema” che “affligge la regolazione salariale” nel nostro Paese, oltre al sommerso e all’evasione, è la “proliferazione contrattuale”. “In Italia difficilmente esistono lavoratori dipendenti non coperti da un contratto collettivo nazionale, ma esistono troppi lavoratori a cui viene applicato un cattivo contratto stipulato da sindacati e associazioni ‘pirata’”, ha osservato il segretario generale aggiunto della Cisl, Luigi Sbarra.
Per imprenditori e sindacati la via da percorrere è piuttosto quella di rafforzare la contrattazione nazionale, valorizzando – ha sottolineato Sbarra – “il ruolo responsabile dei corpi sociali sulle questioni del lavoro”. In questa chiave, “definire che i minimi salariali contrattuali possano avere valore legale è la via che proponiamo a Governo e Parlamento per assicurare un buon salario ai lavoratori italiani”.
Non dissimile la prospettiva tratteggiata in Commissione dal presidente delle Acli, Roberto Rossini: “L’orientamento dovrebbe essere quello di pensare ad un salario minimo legale non come misura unica ma in riferimento ai diversi Ccnl, ancorando la retribuzione oraria alle dinamiche del comparto di riferimento e all’evoluzione della contrattazione collettiva”. “Il tema del salario minimo legale è molto importante – ha detto ancora Rossini – e crediamo vada affrontato in modo più articolato, non si può rischiare di mettere in discussione un sistema di contrattazione e di relazioni aziendali che coprono più dell’85% dei lavoratori italiani”.
“Sebbene l’intenzione di contrastare il lavoro ‘povero’ e mal retribuito attraverso l’introduzione di un salario minimo sia apprezzabile – ha dichiarato a sua volta Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano lavoratori – mi pare tuttavia che il Paese abbia necessità di ben altre ricette per superare lo sfruttamento, la disoccupazione, il lavoro nero”. Secondo Costalli, “servirebbero, anziché provvedimenti che hanno il sapore di spot elettorali, politiche complessive in grado di incidere sul reddito e sulla qualità della vita delle famiglie, in primis una politica fiscale non iniqua e investimenti coraggiosi per rilanciare l’occupazione, specie quella giovanile”.

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