Patrizia Caiffa

Faith è una nigeriana immigrata in Italia: si è salvata per miracolo dalle grinfie del caporalato ma ha sperimentato soprusi e ingiustizie nel mondo del lavoro. Betty è una sindacalista senegalese, nella sua città si batte per i diritti delle donne che lavorano nel settore della trasformazione del pesce. Tichia è di etnia Naga ed venuta dal Myanmar per raccontare le sue battaglie in difesa delle donne nell’agricoltura. Sono alcune delle storie di donne impegnate nella difesa dei diritti raccontate ieri a Roma durante un convegno promosso dal sindacato Fai-Cisl sul tema “Ponti non muri. Donne tra vita e lavoro” nella sede del Cnel, con un focus sulle donne nell’agricoltura. Il sindacato ha istituito da poco un coordinamento che riunisce 60 donne per occuparsi più nello specifico della presenza nel mondo del lavoro e superare le differenze di genere. “Le donne guadagnano ancora il 17,9% meno degli uomini – ricorda Onofrio Rota, segretario generale della Fai-Cisl -. Questo significa che 66 giorni l’anno lavorano gratis. Non basta solo una buona legislazione, c’è bisogno di una giusta contrattazione e di un messaggio culturale da trasmettere”.

Faith, sfuggita alle grinfie del caporalato. E’ arrivata in Italia quando aveva solo 17 anni, passando attraverso la Spagna. Faith Imen Udoh ora vive a Foggia ed ha una figlia di 12 anni. “Ho trascorso più tempo della mia vita qui che in Nigeria”, dice. In questi anni ha sempre lavorato ma spesso in condizioni pessime. All’inizio una signora italiana le ha dato aiuto quando si è trovata sola e senza riferimenti:

“E’ bello quando le donne aiutano le altre donne”.

A Napoli ha iniziato a raccogliere verdure nelle campagne – “lavoravo 100 ore a settimana tutti i giorni” – eppure a fine mese nella busta paga risultavano solo pochi giorni pagati con regolari contributi. “Ci svegliavamo alle 3.30 del mattino e i caporali ci portavano al lavoro. Pretendevano soldi da noi e anche altre cose – racconta -. Nonostante lavorassi onestamente non avevo un reddito sufficiente per rinnovare il permesso di soggiorno. Lì mi sono trovata in difficoltà perché non avevo soldi e ho rischiato di finire nei ghetti. Ma se ci finisci poi è molto difficile uscirne”. Gli amici le dicevano che per gli immigrati non c’era possibilità di altri lavori. Però lei non si rassegnava a fare la fine degli altri. Ha stretto la cinghia – “ho mangiato solo pasta in bianco per tanto tempo” – e cercato altri impieghi: come magazziniera, nelle aziende alimentari nel foggiano. Ma appena ha partorito l’hanno licenziata. Quando è andata a lavorare in una famiglia come badante e colf ha subito però ingiustizie che ancora fatica a riferire senza commuoversi. “Non mi volevano pagare un mese di lavoro, mi hanno accusato ingiustamente di aver rubato un quadro. Invece è stato ritrovato a Milano in casa di un nipote”. Quando è andata dai carabinieri per la denuncia anziché assecondarla ha visto fare una telefonata al datore di lavoro, che però le ha detto: “Mia figlia ti ha già pagato” e non era vero. La faccenda si è risolta all’italiana. “Lì tutti si rivolgevano ad un tipo chiamato ‘zio’, l’ho fatto anch’io. E’ bastata una sua telefonata e ho avuto i miei soldi”. Ora ha un lavoro che le piace, fa l’interprete e la mediatrice culturale a Foggia, e ha intenzione di battersi per i diritti di tutte.

“Quando lavori sei sottomessa e hai paura di dire quello che pensi. La mia esperienza mi ha fatto tanto male ma spero di poter aiutare altre donne”.

In Senegal la pesca è donna. Vive a Ziguinchor, nella regione senegalese della Casamance, che per trent’anni, fino al 2010, è stata teatro di un conflitto dimenticato tra indipendentisti e governo, con 30.000 vittime e migliaia di rifugiati. Betty Ndaye è segretario generale della Ulftb/Senegal, un sindacato che riunisce le donne impiegate nel settore della trasformazione del pesce. “Ora siamo in pace ma l’economia è ancora molto debole – spiega -. Gli uomini sono emigrati verso nord ed è tutto rimasto nelle mani delle donne”. Prima lavoravano il pesce a terra, poi, grazie ad un progetto dell’Iscos finanziato dalla cooperazione italiana, sono state riparate le piroghe per la pesca, costruiti forni per l’essiccazione dei prodotti ittici, hangar, magazzini. Le donne oggi possono svolgere le loro attività con tecnologie più avanzate, nel rispetto delle condizioni igieniche e dei diritti. Anche pescatori, venditrici, grossisti e semplici cittadini, per un target complessivo di 7.800 persone, hanno potuto beneficiare di iniziative di formazione e alfabetizzazione.

Myanmar, agricoltura e diritti delle donne delle minoranze. Lei è una giovane donna di etnia Naga, una delle tante minoranze del Myanmar. Tichia Tedim è la coordinatrice nazionale dell’Affm (Agriculture farmers federation Myanmar). “Vengo da un’area remota del Paese e da una famiglia di agricoltori”, racconta.

“Le donne vengono discriminate sia nel mondo rurale, sia nei processi decisionali, ci sono molte disuguaglianze di genere a livello culturale, soprattutto nei confronti delle minoranze linguistiche”.

In Myanmar il 70% dei 47 milioni di abitanti vive di agricoltura, ma un terzo dei braccianti non è proprietario della terra, espropriata durante 50 anni di dittatura. Anche se dal 2012, con la vittoria del partito di Aung Saan Suu Kyi è iniziato un delicato processo democratico pieno di incertezze, “si sta andando verso l’agricoltura intensiva” con l’accaparramento selvaggio di terre (land grabbing) e altre risorse naturali da parte di grandi investitori da Cina, India, Vietnam, Thailandia. Tutto a discapito dei piccoli agricoltori. “C’è tanta povertà, indebitamento, mancano le tecnologie e abbiamo bisogno di sementi certificate di buona qualità”, precisa. Perciò il suo sindacato si batte per offrire alle donne la possibilità di formazione e promozione della leadership: nel 2017 hanno coinvolto nei loro corsi 261 donne, nel 2018 oltre 570.

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