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Tra i braccianti Sikh sfruttati nelle campagne dell’Agro Pontino: turni di lavoro di 16/18 ore

Patrizia Caiffa

Il tempio Sikh di Borgo Hermada, nelle campagne dell’Agro Pontino, in provincia di Latina, non è facile da trovare. Superato il piccolo borgo dal nome spagnoleggiante, simile a tanti altri costruiti durante il periodo fascista per la bonifica di quelle terre malsane – facendo arrivare anche molti migranti dal Veneto, sic! – bisogna inoltrarsi tra prati e alberi di mimosa in fiore. Invece degli sfarzosi templi che caratterizzano la ricca e varia religiosità indiana, c’è una grande ed anonima tensostruttura bianca. Ironia della sorte, è molto simile alle serre di ortaggi dove migliaia di braccianti Sikh, giunti in queste zone da decenni, sono impiegati in condizioni di sfruttamento. Non solo nell’agricoltura, anche nelle stalle con il bestiame. Lavorano tutti i giorni, festivi compresi, da un minimo di 12/14 ore fino a 16/18 ore al giorno. Guadagnano nemmeno 4 euro l’euro. A fine mese, se va bene, riescono a mettere insieme uno stipendio di 800 euro. A volte in nero, a volte con contratti che regolarizzano solo la metà delle giornate lavorate, a volte con affiancata lettera di licenziamento da firmare in bianco appena assunti. Alcuni sono inseriti nel territorio e sono riusciti a far arrivare dal Punjab indiano anche le famiglie. Altri vivono in 6/8 persone in baracche o container senza acqua ed energia elettrica, pagando affitti irragionevoli. Il caporalato e le mafie della zona fanno affari d’oro in queste zone, interfacciandosi anche con il vicino mercato agricolo di Fondi, notoriamente oggetto di interessi criminali. Negli ultimi anni sindacalisti e attivisti che hanno preso a cuore la vita di questi uomini miti e laboriosi hanno portato allo scoperto il malaffare e tante sono state le denunce e gli arresti.

Il sociologo Marco Omizzolo

“Braccia utili all’agricoltura, erano pagati 50 centesimi l’ora”. “Quando abbiamo iniziato i braccianti erano pagati 50 centesimi l’ora ed erano costretti a chiamare ‘padrone’ i datori di lavoro”, racconta Marco Omizzolo, il sociologo che studia il fenomeno e li affianca da anni, tra i fondatori della cooperativa In Migrazione . “Erano obbligati a radersi i capelli e la barba: un tentativo di cancellare l’essere umano e la loro identità per farne solo braccia utili all’agricoltura”. Dopo un grande sciopero in piazza a Latina il 18 aprile del 2016, con oltre 4.000 braccianti Sikh, qualcosa ha iniziato a muoversi:

“Molti hanno avuto il coraggio di denunciare lo sfruttamento e al Tribunale di Latina sono arrivate 150 denunce”.

“Ma se vengono trovati a parlare con sindacalisti e giornalisti rischiano la vita, ci sono frequenti minacce e ritorsioni”. Tanti sono ancora gli episodi di umiliazioni e sfruttamento, per questo, secondo Omizzolo, sono necessarie nuove lotte: “Dobbiamo scendere di nuovo in piazza. O ci ribelliamo o siamo complici”.

Nel tempio Sikh di Borgo Hermada si entra senza scarpe. Anche gli ospiti devono mettere sulla testa, per rispetto, copricapi colorati. La scorsa settimana una folta delegazione di magistrati della storica associazione Magistratura democratica, ha scelto di aprire il congresso annuale in un luogo simbolico delle ingiustizie di questi tempi. Seduti in terra ad aspettare c’erano già centinaia di braccianti indiani con i loro affascinanti turbanti azzurri, bianchi, gialli, rossi, neri, arancioni. In un angolo buio, alcune donne. Perfino un bambino di 4/5 anni, dagli occhi vivaci e il sorriso raggiante. Nell’aria profumo di curry, cumino, cardamomo e altre spezie del sub-continente indiano. Nel luogo in cui si prega è compresa una cucina. Qualcuno serve il cibo, i braccianti stanchi del lavoro mangiano le samosa – triangolini piccanti riempiti di carne o verdure -, agli ospiti viene offerta aranciata, al termine dell’incontro anche rasgollah, gli zuccherosi dessert indiani intinti nell’acqua di rose.

Al servizio dei diritti e della giustizia. “Ringrazio Dio perché ci state vicino – dice Gurmuk Singh, presidente della Comunità indiana del Lazio -. I nostri problemi sono tanti: i ragazzi vengono pagati poco, ci sono difficoltà con i permessi di soggiorno, brutte condizioni degli alloggi. Ringraziamo i carabinieri di Terracina perché quando succede qualcosa intervengono, ma

lo sfruttamento ancora esiste e dobbiamo combattere tanto”.

Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, ribadisce quanto sia fondamentale, per i magistrati, la conoscenza diretta delle realtà con cui devono confrontarsi. “Noi siamo qui per far sì che i diritti e la Costituzione vengano presi sul serio”, sottolinea.

Magistrati, avvocati, sindacalisti e lavoratori si alternano al microfono. Si sente che i problemi sono seri e pressanti e che qui, in prima linea, si sta facendo la storia. A fianco agli uomini sfruttati c’è anche un prete diocesano impegnato nell’associazione Libera. Indossa il copricapo come gli altri, le sue parole sono sincere e appassionate. “Il vero problema in Italia non sono i migranti ma i mafiosi – scandisce don Francesco Fiorillo, del presidio di Libera Sud Pontino -. E il vero corto circuito è la solitudine.  Invece contro le mafie vince il ‘noi’, la corresponsabilità”. Don Fiorillo lancia un forte  appello “ad essere un po’ più coraggiosi”: “Oggi non si può più essere neutri, bisogna decidere da che parte stare ed alzare la voce, perché di prudente silenzio ce n’è già troppo”. Il sacerdote ci tiene a sconfessare “chi pensa che ci sia un conflitto tra religioni: l’autentica religiosità è mettersi insieme al servizio della giustizia”.

“Non basta indignarsi, bisogna impegnarsi”.