DIOCESI – Questa sera alle ore 21.00 presso il teatro S. Filippo Neri a S. Benedetto del Tronto, si terrà il terzo ed ultimo incontro formativo diocesano sul tema “Ricondurre la diversità all’unità: attraversare i conflitti” e sarà animato dal prof. Enrico Parolari, professore presso il Seminario arcivescovile di Milano.

Può essere utile rileggere qualche appunto della relazione tenuta dal prof  Pierpaolo Triani nell’ultimo incontro sul tema: “Dall’ecclesiologia di comunione alle unità pastorali: ponti non muri”

Il professor Pierpaolo Triani è partito dai cambiamenti di scenario pastorale ormai in atto in molte diocesi, dall’unione di parrocchie con tutti i disagi che esso comporta, alla riorganizzazione in cui delle parrocchie si mettono insieme per attività e progettazione pastorale, evidenziando alcuni punti in comune:

  1. Questi cambiamenti si presentano innanzitutto come una riorganizzazione pastorale che punta ad una rinnovata responsabilità della comunità cristiana nel suo insieme. Non esiste responsabilità solo del presbitero, che ha una funzione di guida, ma tutta la comunità cristiana nel suo insieme è responsabile.
  2. Questi cambiamenti di scenari pastorali hanno delle conseguenze cioè comportano un cambiamento paziente della mentalità in tutti: nei laici, nei presbiteri, nei diaconi, nei religiosi che chiedono di essere accompagnati. Questo vuol dire che cambiano le modalità di funzionamento del consiglio pastorale, delle assemblee parrocchiali…Non ha senso infatti fare unità pastorali se poi tutto funziona come prima, sarebbe solo un modificare qualcosa sulla carta.

Questa trasformazione in atto comporta almeno due rischi:

  • il nominalismo: chiamare con nome diverso la stessa cosa. Ci deve essere qualcosa che cambia.
  • il fermarsi alle sole procedure come ad esempio fare il coordinatore, il consiglio dell’unità pastorale e poi continua tutto continua come prima.

Il professor Triani ha poi invitato ad avere come comunità cristiana alcune attenzioni:

  1. Curare il senso: perché dobbiamo mettere mano alla riorganizzazione pastorale? Si potrebbe dire semplicemente perché ci sono pochi sacerdoti, come se fossero molti si potesse cominciare a ‘frammentare’. Può anche esserci questo aspetto contingente, ma il senso della riorganizzazione è più profondo e consiste nel permettere alla comunità cristiana di mantenere la propria vitalità e quindi la propria forza missionaria. Si riorganizza la pastorale non perché i numeri sono diminuiti ma perché la comunità cristiana ha bisogno di essere viva per essere missionaria. Questo ci conduce ad un altro aspetto: quale è il senso della Chiesa? Ecco l’ecclesiologia di comunione. Il rimando è alla Lumen Gentium (n. 1) dove si dice che la luce delle genti è Cristo che si riflette sul volto della Chiesa. La Chiesa è ‘segno’ per cui quando diciamo che la Chiesa è costitutivamente missionaria diciamo che la Chiesa non può non essere missionaria perché è costitutivamente segno cioè c’è per dire il vangelo, per dire la fede delle persone nell’amore fondante di Dio per la nostra vita, come dice la lettera pastorale del vostro vescovo, per essere segno di riconciliazione. Il senso della comunità cristiana, del nostro ritrovarci è per essere ‘segno’, la Chiesa non è un servizio individuale (vado in chiesa per sentirmi bene) ma segno dell’amore di Dio che è distribuito in ministeri diversi ma che appartiene a tutti. Il sacerdozio battesimale ci rende tutti, attraverso il battesimo, partecipi di questa missione. La chiesa c’è per essere segno non di divisione ma di riconciliazione, non di disperazione ma di speranza, non di gelosie ma di gratuità. Tutti siamo chiamati ad essere segno e ciò è possibile se la Chiesa si pensa come volto, come volto concreto dell’amore di Dio. E se la Chiesa è volto vuol dire che è segno di un’accoglienza personale non anonima. Questo è stato sottolineato moltissimo nel convegno di Firenze quando in un documento finale è stato detto che la Chiesa si fa ‘volto per volto’ e ‘volta per volta’. E siccome la Chiesa è un fatto concreto, esiste per essere spazio, uno spazio umanizzante non anonimo, dove le persone possono sentirsi accolte, ritrovarsi, sentirsi a casa, in famiglia. Questo è il senso della Chiesa, è la misura delle comunità cristiana. Come possiamo essere segno, volto, spazio? Mettendoci insieme per unire le forze, per collaborare. Se si perde di vista il senso è finita, si perde di vista lo scopo finale.
  2. Curare la dinamica. C’è da chiedersi cosa rende la comunità tale? Cosa la rende spazio, volto, segno? Come in ogni realtà, una realtà viva, ha sempre una dinamica di fondo che è questa: estroversione e introversione. Una comunità è viva se si apre e muore se si chiude. Tuttavia l’apertura richiede anche l’introversione cioè la consapevolezza di sé. Dentro questa dinamica di fondo la Chiesa si costruisce attorno a cinque parole che nella riorganizzazione pastorale siamo chiamati a vivere.
    1. Comunione. Una comunità ecclesiale si costruisce attorno al senso di appartenenza, ma non ad un oggetto o a un territorio, si costruisce attorno al riconoscere di appartenere ad un unico dono ricevuto. Questa è la comunione: La comunione non la fanno i cristiani ma è data dal riconoscere il dono ricevuto nella fede. La comunione è questo appartenere al dono ricevuto che va al di la delle nostre differenze. La prima dinamica della comunità cristiana è la comunione: non ci siamo fatti noi cristiani ma abbiamo ricevuto un dono che ci accomuna. La comunità cristiana si costruisce attorno ad un’appartenenza e questo nella riorganizzazione pastorale vuol dire aiutare le persone a fare la fatica di sentirsi parte di una Chiesa più grande delle quattro mura in cui siamo confinati. Il primo passaggio della dinamica ecclesiale: sentirsi parte di un dono ricevuto.
    2. Fraternità. Siccome abbiamo ricevuto un dono comune siamo fratelli. Ma la fraternità negli umani è una cosa difficilissima, infatti nella Bibbia, dopo il peccato di Adamo ed Eva, nel racconto che segue Caino uccide il fratello Abele. Questa è la fraternità ferita. La fraternità nella comunità cristiana è una fraternità consapevole di questa ferita e cerca di superarla riconoscendo un’origine comune e cercando di vivere come fratelli.
    3. Collaborazione. Una comunità cristiana cresce nella misura in cui ciascuno si mette a disposizione, fa la propria parte secondo le risorse, il tempo e le competenze che ha.
    4. Corresponsabilità. La collaborazione potrebbe misurarsi a livello di distribuzione degli impegni, ma la corresponsabilità è rispondersi reciprocamente cioè mettere insieme le risorse per un progetto comune. Il cuore della corresponsabilità nella comunità cristiana è che ciascuno risponde all’altro, prendendosi cura della fede dell’altro. Nella comunità cristiana ciascuno è corresponsabile della fede altrui perché ci si accompagna nel credere. Occorre imparare a prendersi cura della fede dell’altro, anche del parroco, del vescovo. C’è inoltre una corresponsabilità poi anche nella missione ognuno attraverso il proprio ministero.
    5. Sinodalità. E’ stata messa in luce molto dal Convegno di Firenze e vuol dire che si cammina insieme.

Se riorganizziamo la forma pastorale tutto ha senso se si curano queste dimensioni della comunità.

  1. Curare la dinamica

Oltre ad insistere sul curare il senso, le dinamiche, il professore ha invitato a il processo che porta a riorganizzare la pastorale basata sul desiderio della comunità cristiana di essere vitale. Ha così evidenziato i passaggi che curare il processo richiede.

  • avere consapevolezza della fatica: le cinque parole sopra elencate, costano energia, non sono proprie di noi umani in quanto siamo esseri egoisti. Bisogna uscire dalla retorica che queste cose siano una cosa facile. Sono cose però necessarie e richiedono: energia, volontà, fatica, riconoscimento degli errori e coraggio di rialzarsi. Nella dinamica della comunione ci sono due tipi di limiti: ci sono dei limiti fisiologici (dopo un’ora di riunione mi stanco…); ci sono limiti spirituali come i peccati contro la comunione (ad esempio l’invidia), la poca umiltà rispetto al servizio, il non servire gratuitamente. Nel momento in cui si va a costituire un’unità pastorale si dovrà mettere insieme delle persone, organizzare delle riunione che all’inizio sembrano non funzionare ( da soli si decide prima).
    • darsi del tempo. Occorre darsi il tempo per costruire il processo. Non a caso papa Francesco dice che il tempo è superiore allo spazio. Non prendere tempo per non fare le cose, ma per far maturare delle consapevolezze, delle risorse dentro le comunità. Quindi è importante avere la consapevolezza della fatica, uscire dalla retorica che stare insieme sia bello (nessuno disegna la casa ideale come un condominio ma una villetta col recinto). I risultati immediati non ci sono. Darsi del tempo vuol dire curare i processi, non semplicemente attivarli.
    • definire delle forme e relativizzarli. La costruzione della comunità richiede delle forme, delle organizzazioni, ma queste non sono il fine ma uno strumento. La parrocchia è lo strumento per essere segno nella Chiesa, uno strumento che ancora oggi è fondamentale, però siamo sempre nell’ordine dello strumento. L’Eucaristia non è uno strumento, le forme pastorali sono uno strumento necessario. Il non definire delle forme con precisione lascia il concetto di unità pastorale molto vago. Bisogna precisare le forme sapendo che si possono cambiare perché le forme sono relative.
    • Stare nella sequela. Come si cura il processo della costruzione di una comunità? Stando ciascuno nella sequela. E’ la radice spirituale di cui ha bisogno una riorganizzazione pastorale. La comunità si costruisce sul fatto che tutti ci sentiamo discepoli e consideriamo uno solo come il Maestro. In questo sta la cura della sequela. E la comunità cristiana si aiuta reciprocamente ad essere discepoli, poi ci sono tutte le dinamiche che c’erano anche al tempo di Gesù: chi cerca il primo posto, chi va vicino, chi va avanti, chi va indietro. Gesù ci chiede di essere tutti quelli che seguono. Curare la sequela questa è la radice della comunità. Tutti siamo alla pari e tutti siamo discepoli, anche coloro che presiedono l’Eucaristia. Anche il papa, sebbene sia il primo, è discepolo come noi.
    • curare le relazioni. Se non si curano le relazioni, se le relazioni sono anonime, se uno non viene riconosciuto quando entra in una comunità, se uno bussa alla porta e non trova accoglienza, la costruzione della comunità è debolissima e rischia diventare un dispensario di servizi. Curare il processo vuol dire alimentare i dispositivi esistenti cioè se ci sono dei consigli pastorali parrocchiali bisogna farli funzionare meglio, se non ci sono bisogna costruirli perché è vero che il diritto canonico non ci obbliga, ma è altrettanto vero che se andiamo a leggere la “Gaudium et spes” cogliamo con pienezza che la partecipazione dei laici diventa fondamentale. Il problema non è la forma del Consiglio Pastorale, ma la sostanza e cioè avere un gruppo di persone che lavorano insieme ed aiutano nel discernimento pastorale all’interno della comunità. Questo vuol dire prendersi cura che tutto funzioni bene: avere un ordine del giorno, un verbale, un resoconto di quello che sta succedendo. Sono cose banali eppure fondamentali nella tenuta del filo rosso di una comunità.
    • alimentare la cultura della fraternità. Siccome oggi viviamo in una cultura segnata dall’individualismo, la costruzione di una comunità cristiana richiede il rimettere al centro la cultura della fraternità, il che vuol la cura dell’accoglienza, del perdono… se questo non avviene la comunità cristiana si indebolisce. Tra due parrocchie non si può non riconoscersi fratelli, non avere il senso di appartenenza alla stessa comunità cristiana …la cultura della fraternità è la cultura della condivisione del dono che chiede di uscire dalla logica del questo è mio, questo è tuo. Il tema delle unità pastorali va proprio in questa direzione: condivisione delle risorse, condivisione dei progetti e però richiedono una comunità cristiana allenata su questi aspetti. La comunità cristiana si costruisce nello spezzare il pane della fraternità, si costruisce se si va là dove ci sono le situazioni di solitudine, le difficoltà per il lavoro perso, la fatica educativa…In questo è molto importante mettere insieme le risorse per fare una pastorale dei malati veramente, una pastorale del lavoro veramente, dell’ambiente…altrimenti le piccole parrocchie dicono non ce la faccio! Dobbiamo immaginare sempre di più una realtà pastorale dove le comunità si raccolgono intorno all’Eucaristia, attorno alla catechesi ma poi scommettono su tutta una dinamica che può essere a centri concentrici.

CONDIZIONI PER ATTIVARE IL PROCESSO

Infine il professor Triani ci ha ricordato che per attivare un processo di questo tipo sono necessarie tre condizioni:

  • credere nel Vangelo
  • formarsi alla collaborazione a partire dai preti e dai laici. Ci si forma alla collaborazione collaborando, facendo la fatica di collaborare, accentando il limite che l’altro ha della collaborazione. A nessuno si deve dire di seppellire magari l’unico talento che possiede.
  • avere il coraggio di provare, non avere la paura di provare. Papa Francesco nella cattedrale di Firenze tenendo il discorso straordinario alla Chiesa italiana ad un certo punto ha detto ‘osate con libertà’! Vuol dire provare, provare a mettere in atto delle cose, intelligentemente rifletterci per vedere cosa non va. Se non proviamo con libertà in realtà ci chiudiamo e se ci chiudiamo le nostre comunità cristiane sono destinate a diventare sempre più sterili, incapaci di generare. Nella misura in cui sono segno vitale del vangelo si può iniziare un processo generativo.

 

 

 

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