Maddalena Maltese

“Caro Signor Presidente, ti diamo il benvenuto nella nostra comunità nel sud del Texas, lungo il Rio Grande, che collega gli Stati Uniti al Messico. Vorrei invitarti a farci visita”. Inizia con queste parole la lettera che suor Norma Pimentel, direttrice delle Caritas per il Rio Grande e responsabile del Centro Humanitarian Respite, ha scritto al presidente Trump nel giorno della sua visita a McAllen in Texas, uno dei punti di confine dove dovrebbe sorgere il muro della discordia. Suor Norma, nota anche come la suora preferita dal Papa (perché in un’udienza video Francesco l’ha chiamata tra la folla per ringraziarla), nel suo centro ha accolto oltre 100mila migranti negli ultimi quattro anni, con punte di 300 al giorno.

Le porte di questo luogo di ristoro si sono aperte nel 2014, quando decine di migliaia di persone, provenienti da Guatemala, Honduras ed El Salvador, hanno attraversato il confine creando un’emergenza nella valle del Rio Grande. Erano famiglie immigrate, affamate, impaurite che si accalcavano alla stazione degli autobus con un solo vestito addosso e con niente da mangiare o da bere. Suor Norma e le comunità cristiane, ma anche diverse associazioni, si mobilitarono per garantire almeno un pasto e una prima assistenza, che nel tempo sono poi diventate il centro che dirige. “Quando le famiglie attraversano il confine –continua la suora – vengono generalmente arrestate dalle autorità di frontiera, trattenute per alcuni giorni e rilasciate con un documento dove è stabilito l’appuntamento con il tribunale che esaminerà la loro richiesta di asilo”. Dopo che sono stati rilasciati, i migranti vengono accolti al centro.

“Quando arrivano alle nostre porte, la maggior parte degli adulti indossa braccialetti eletrronici alla caviglia forniti dalla polizia di frontiera e trasportano caricabatterie ingombranti per mantenere il dispositivi acceso”,

spiega nella missiva inviata al presidente. Niente di criminale, minaccioso, violento traspare nella descrizione di suor Norma. Le famiglie che arrivano al centro sono esauste e spaventate e in un piccolo sacchetto di plastica racchiudono i loro averi. Pochi parlano inglese e tanti hanno bambini piccoli al seguito. Guardando il cortile di questo centro o la piazza di El Paso dove nei giorni a cavallo con l’inizio dell’anno migliaia di migranti sono stati rilasciati dalle autorità, nulla fa presagire lo stato di emergenza che il presidente sta considerando di dichiarare dopo queste quattro ore al confine. Suor Norma insiste invece nell’invito, soprattutto al mattino presto. “Vedrai famiglie che trascorsa la notte stanno riordinando gli spazi usati per dormire – scrive la religiosa -. Alcuni stanno spazzando, alcuni stanno aiutando a preparare la colazione, e alcuni si stanno preparando la partenza in autobus verso altri stati. Vedrai i volontari che preparano pacchetti igienici, panini, tagliano le verdure per preparare la zuppa per il giorno o per mettere in ordine gli abiti donati. Altri li aiutano a contattare altri membri della famiglia che vivono negli Usa e poi si prepara un bigliettino che recita:

‘Per favore aiutatemi. Non parlo inglese. Che bus prendo? Grazie per l’aiuto’.

È da mostrare a chiunque si incontri per strada”. Con la dogana e gli agenti della frontiera si è coltivata negli anni “una cultura di rispetto reciproco e dialogo” ed è in rapporto con loro che il centro conosce, in anticipo, i numeri del rilascio e prepara i posti necessari all’accoglienza. Per questo molti dei cartelli, che accolgono il presidente, dicono chiaramente “Non c’è crisi” poiché questo come molti altri centri al confine sono diventati una risposta concreta ed organizzata che ha saputo coinvolgere le comunità, non solo vicine, ma di tutti gli Usa, poiché donazioni e volontari arrivano da ogni angolo del Paese.

Anche i vescovi americani intervengono nell’infuocato dibattito, suscitato dal discorso presidenziale e dai suoi interventi successivi, spiegando che

“confini sicuri e trattamento umano di chi fugge dalla persecuzione e cerca una vita migliore non si escludono a vicenda, anzi gli Stati Uniti possono garantire entrambi e devono farlo senza incutere paura o seminare odio”.

Mons. Joseph Vásquez, presidente del Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale, precisa che insieme ai suoi confratelli continueranno “a sostenere la riforma dell’immigrazione” ed esorta” i legislatori a guardare oltre la retorica e ricordare la dignità umana che Dio nostro Padre ha concesso a ciascuno semplicemente perché siamo tutti suoi figli”. I vescovi inoltre fanno un richiamo deciso al Congresso per porre fine allo shut down con “una soluzione che riconosca la dignità del lavoro dei dipendenti interessati, rispetti l’umanità di tutti, indipendentemente dallo status di immigrazione”.

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