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In Nicaragua la repressione contro la stampa libera si fa sempre più feroce

Bruno Desidera

“Sono nella loro lista, sono costretto a lavorare in luogo nascosto, non posso uscire in strada”. “Fare la giornalista in Nicaragua è super-pericoloso. Io mi sono vista puntare in faccia un’arma, mi è stato rubato il cellulare… Spesso penso di lasciare il Paese, ma fino a che sono qua, voglio continuare a fare il mio lavoro”. “Viviamo in un costante clima di intimidazione, ma per me fare il giornalista è una vocazione”. Sono le voci dei giornalisti coraggio del Nicaragua, raccolte direttamente dal Sir: nell’ordine, Álvaro Navarro, direttore del sito “Articulo 66”, Ana Cruz, cronista di “El Nuevo Diario”, Israel Gonzáles Espinoza, corrispondente della spagnola “Religión Digital” e collaboratore di “Articulo ‘66”.
Tre voci tra quelle che in queste settimane fanno sapere al mondo che nel Paese centroamericano è in atto una repressione sempre più feroce da parte del governo di Daniel Ortega. Un regime che si sta trasformando in dittatura, come ha detto giovedì scorso una voce autorevole e imparziale, quella di Paulo Abrao, segretario esecutivo della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh). In questa attività di repressione i giornalisti liberi, e quindi scomodi, sono diventati i nemici numero uno.

Repressione sempre più dura. Prima è toccato al giornale “El Confidencial” e al suo direttore Carlos Chamorro. Le forze speciali del regime hanno devastato la redazione e picchiato vari giornalisti. Poi al canale televisivo “100% Noticias”, chiuso dalle autorità governative, mentre sono stati arrestati il direttore e proprietario Miguel Mora e la giornalista Lucía Pineda Ubau. Sono solo alcuni esempi delle tante minacce e attacchi: un centinaio di episodi solo nei mesi di ottobre e novembre secondo la Cidh, circa 400 tra aprile e ottobre secondo la Fondazione Violeta Chamorro. Sotto tiro le già citate testate, ma anche lo “storico” quotidiano “La Prensa” e numerose radio locali, non solo a Managua, ma anche in altre città, come León e Matagalpa.
Chi sarà il prossimo? I nostri intervistati non lo nascondono, temono che tocchi a loro. Israel Gonzáles commenta: “La Cidh ha spiegato che è in atto la quarta fase della repressione”. Per i giornalisti indipendenti, questo significa “intimidazioni, calunnie sui social network, pestaggi e furti delle proprie attrezzature, raid nelle redazioni”. Fino all’arresto e al rischio stesso della propria vita. Rispetto alla scorsa primavera si registra un escalation, non solo per il numero di episodi, ma per la loro intensità:

“Prima il rischio era di essere attaccati mentre facevamo il nostro lavoro sulla strada, durante le manifestazioni. Ora vengono direttamente nelle redazioni”.

Certo, afferma Gonzáles, “è una situazione difficile, c’è chi ha famiglia, ha figli… Ma in questo momento il nostro è un ruolo storico, quello di stare dalla parte della verità e del nostro popolo. Io, da cattolico, dico che l’essere giornalista è una vera e propria vocazione, e un servizio alla comunità”.

“Consapevoli di rischiare la vita”. Álvaro Navarro è, oggi, uno dei giornalisti maggiormente e rischio nel Paese, anche nella sua qualità di animatore dell’organizzazione “Giornalisti e comunicatori indipendenti del Nicaragua”: “In realtà – dice – la libertà di stampa qui manca fin dal 2007, da quando Ortega è tornato al potere e ha iniziato a parlare solo con i giornalisti di regime, quelli che prendono uno stipendio tre-quattro volte più alto rispetto a noi”. Ma negli ultimi mesi la repressione si è fatta sempre più forte: “Sono nella loro lista, sono a siamo consapevoli di rischiare la vita, o quanto meno di finire nel famigerato carcere del Chipote. Chiaramente abbiamo paura. Ma la denuncia è la nostra unica arma”.
La giovane Ana Cruz conferma: “E’ una situazione molto pericolosa e molto dura a livello personale, tante volte mi dico che dovrei lasciare il Paese.

In questi mesi ho subito minacce, mi è stata puntata in faccia un’arma, ogni volta che esco metto al sicuro i dati e pulisco la memoria del cellulare”.

Il momento più drammatico? “Lo scorso 9 luglio, a Diriamba, quando i paramilitari hanno attaccato e quasi linciato i nostri vescovi, il cardinale Brenes e il vescovo ausiliare Báez. Ero presente e ho visto la violenza di queste persone”. Eppure Ana continua nel suo rischioso lavoro: “Lo faccio per l’amore che ho per il mio Paese – dice commuovendosi – per la gente che ho visto soffrire. Se non lo faccio io, chi lo fa? Ma vedo cosa sta capitando ai colleghi, penso che potrei essere io la prossima”.

Tra pessimismo e speranza. Inevitabile chiedere ai giornalisti se pensino a un futuro migliore per il loro Paese. E i giudizi sono divergenti: “La situazione sta peggiorando, non si può essere ottimisti, l’unica arma è la pressione internazionale”, sostiene Navarro. “Il futuro è nelle mani di Dio, non posso non avere speranza, ma in questo momento ho tanta paura”, ammette Ana Cruz. Più ottimista Gonzáles: “Ortega ha riconquistato il controllo del Paese, un’operazione costata 325 vite umane. Ma la crisi economica e sociale è molto forte, le imprese chiudono… a me

Ortega pare il biblico gigante con i piedi d’argilla, presto o tardi sarà costretto a dialogare e a negoziare la sua uscita dal potere.

Mesi, un anno, al massimo due anni. Il Nicaragua non è il Venezuela, non ha il petrolio… e non è neppure Cuba”. Intanto, si guarda con fiducia e ammirazione all’azione della Chiesa: “Sta avendo un grande ruolo in questa situazione, ha saputo essere vicina al suo popolo e ad evitare che ci fossero ancora più vittime”.