Maurizio Calipari

Poche settimane fa lo scioccante annuncio dello scienziato cinese He Jiankui, con cui dichiarava di aver contribuito alla nascita dei primi bambini – due gemelle – con genomi modificati. Le finalità dell’esperimento rientrerebbero nella logica del cosiddetto “enhancement” (miglioramento, potenziamento), ottenuto mediante interventi di manipolazione genetica. Alle gemelline, infatti, quando erano ancora in uno stadio embrionale precocissimo, sarebbe stato modificato (“silenziato”) un gene (denominato CCR5) del loro DNA per renderle più resistenti ad un’eventuale futura infezione da HIV (il virus che causa l’AIDS). Continuiamo ad usare il condizionale poiché, finora, l’annuncio del dottor Jiankui non è stato confermato da alcuna pubblicazione scientifica né da presentazioni ufficiali a convegni di esperti.
Ad ogni modo, pochi giorni dopo l’uscita sui media del ricercatore cinese, la comunità scientifica intera – e le stesse autorità cinesi – hanno pubblicamente stigmatizzato questo esperimento, quantomeno per le modalità con cui sarebbe stato realizzato, in pieno contrasto con le principali regole prescritte ed adottate dai ricercatori in questo delicato ambito.

Le preoccupazioni e i dubbi scientifici che esso suscita, infatti, – come sottolinea un recente commento apparso sull’importante rivista “Nature” – sono molteplici e riguardano i reali effetti che queste alterazioni genetiche potranno causare sulla salute delle bambine. Purtroppo, se ne potrà avere contezza soltanto negli anni, man mano che le bimbe “trattate” cresceranno, costrette comunque a portarne le conseguenze, qualunque esse siano.

A ciò si aggiunge che il DNA modificato delle gemelline è un elemento “ereditabile” (sarà trasmesso alla loro eventuale futura prole e ai discendenti successivi). Un rischio eccessivo, inquietante, inaccettabile persino per i fautori più spregiudicati dell’ineluttabile avanzamento della scienza. Tanto che i più autorevoli scienziati del settore – come sottolinea lo “statement” conclusivo del Second International Summit on Human Genome Editing, tenutosi a Honk-Hong nei giorni successivi all’annuncio di He Jiankui – hanno voluto ribadire con forza che “proseguire con qualsiasi uso clinico di editing sulla linea germinale, allo stato attuale, rimane un gesto irresponsabile”, a causa del fatto che esso “potrebbe produrre effetti dannosi involontari, non solo per un individuo ma anche per la sua discendenza”. Tuttavia, gli stessi scienziati non escludono che “l’editing della linea germinale possa diventare accettabile in futuro se questi rischi saranno affrontati e se verrà adottata una serie di criteri addizionali. Questi criteri includono una rigida sorveglianza indipendente, una necessità medica impellente, l’assenza di ragionevoli alternative, la pianificazione di follow-up a lungo termine, l’attenzione agli effetti sociali”.
Dunque,

l’accettabilità etica di queste sperimentazioni è soltanto questione di giuste regole procedurali da concordare ed adottare?

Oppure essa esige un confronto previo su interrogativi più radicali e decisivi? Per capirci, riassumendo, la prospettiva di cui stiamo parlando è di intervenire su embrioni precoci (o su cellule germinali), modificandone parzialmente il DNA al fine di rendere il soggetto interessato più resistente contro eventuali malattie specifiche. Il tutto, ovviamente, è realizzabile solo nell’ambito della fecondazione artificiale. Quindi, immaginando di ampliare la platea dei beneficiari, dovremmo concludere che la miglior modalità di cominciare l’esistenza presto sarà proprio la fecondazione in vitro, poiché in grado di “produrre” individui con qualità migliori e più in salute. E chi sarà ancora generato naturalmente cosa diventerà, il “figlio di un dio minore”, perché esposto ad ammalarsi come i suoi avi? Forse, l’umanità si dividerà in categorie di persone, individuabili per la loro resistenza (o magari immunità) ad alcune malattie? E poi, quali malattie? Chi deciderà, cioè, per quali di esse si dovrà modificare il DNA e per quali no? E, a volerla dire tutta, trattandosi di potenziamento dell’individuo, perché non pensare di modificare i geni anche per ottenere altre caratteristiche dell’organismo ritenute utili? E che fine farebbe la libertà dell’individuo, a cui, senza alcun consenso personale, viene imposto – a lui e alla sua discendenza – un genoma modificato?
Simili interrogativi, evidentemente, potrebbero moltiplicarsi a dismisura, rivelando la “scivolosità” di questa azzardata prospettiva. Eppure, non stiamo parlando di fantascienza, ma di possibilità d’intervento genetico già in atto. Forse è diventato urgente e improcrastinabile che, come comunità, ci soffermiamo a confrontarci per cercare insieme anzitutto la risposta ad un unico interrogativo previo: che tipo di umanità vogliamo essere, per noi stessi e per le generazioni future?

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