Giovanni M. Capetta

Essere fratelli: dove si impara se non in famiglia? Da sempre risuona la domanda biblica “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4,9). Da sempre, generazione dopo generazione, ci saranno fratelli maggiori che – chi più, chi meno colpevole – cercheranno di rintuzzare i moniti dei genitori, deresponsabilizzandosi per un fratellino che si è fatto male o è rimasto indietro… ma da sempre il legame fraterno resta uno dei più forti e resistenti alle offese del tempo. È su questo germe di bene che scommette il Papa sostenendo che “il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace” (AL 194). Possono sembrare parole altisonanti per quei genitori che hanno appena dovuto sedare l’ennesima lite fra due figlie adolescenti, o che si ritrovano a dover centellinare i minuti da dedicare ad ogni figlio con sempre il timore che qualcuno si ingelosisca per una precedenza accordata o un “tempo speciale” offerto ad uno invece che all’altro. Effettivamente fra fratelli possono consumarsi anche i più grandi conflitti e i litigi di gioventù, se mal gestiti, possono diventare dissidi che dividono, complici gelosia, invidia, avidità e quant’altro. Che lezioni si possono tenere, dunque, in questa “scuola di libertà e di pace” di cui parla il Papa? Lo stile di fraternità, il desiderio di una convivenza umana improntata al riconoscimento e al rispetto dell’altro… sono ingredienti della vita che si imparano prima di tutto in famiglia ma non c’è un libretto di istruzioni o un programma prefissato, molto è affidato all’affetto, alla pazienza e alla fantasia dei genitori. Il Papa fa l’esempio di quando in una famiglia ci si prende cura di un fratellino o una sorellina in difficoltà, più debole o malato… ma dove non c’è questa situazione limite? Spesso l’egoismo sembra prevalere e si assiste a lotte furibonde per cambiare o non cedere il proprio turno di sparecchiamento della tavola. Talvolta l’insofferenza reciproca fa sì che, anche solo per fare i compiti, fratelli vicini d’età debbano spostarsi agli antipodi della casa pur di poter convivere… Molto spesso sono i fratelli i più implacabili giudici gli uni degli altri… Dobbiamo dunque scoraggiarci? No, pare dirci il Papa, questa palestra vale la pena di essere vissuta e consiglia a chi ha un figlio unico di far sì che non cresca solo o isolato (cfr. AL 195). Sentirsi fratelli e soprattutto comportarsi da fratelli che dimostrano realmente di volersi bene non è un sentimento di per sé spontaneo e tanto meno facile, si tratta di una conquista ma una conquista che porta i suoi frutti nel corso del tempo. La speranza, infatti, è che, superando le teorie dei complessi e delle compensazioni (figli di famiglie numerose accaparratori arrabbiati col mondo?) chi ha imparato da piccolo a “cedere il posto”, chi ha assaggiato da giovane che è bello condividere, chi è stato fratello diventi da grande un uomo o una donna più gentile, capace di essere fratello o sorella di tutti.

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